Dead Parrot’s Summer 2015 Mixtape


di
and


Slim Twig – Slippin’ Slidin’
Meg Baird – Mosquito Hawks
Powell – Rider
Kindest Cuts – Prone
Domenique Dumont – Comme Ça
De Lux – LA Threshold
The Holydrug Couple – Atlantic Postcard
Sauna Youth – Transmitters
Monsoon – Ride A’ Rolla
Jamie xx – Gosh
Mamman Sani – Dangay Kotyo
Mica Levi – Love
Refused – Elektra
Sleaford Mods – Jolly Fucker
The Bug – Function
Sikitikis – Zaire ’74
R. Stevie Moore & Jason Falkner – That’s Fine, What Time?

Bonus Track:
Calibro 35 vs Beastie Boys – Sabotaggio


Dead Parrot’s Christmas Compilation 2014


di
and

Lay Llamas – We Are You
La Piramide di Sangue – Aperti alle Sette
Sinkane – How We Be
Sebastien Tellier – L’adulte
The Limiñanas – Votre coté yéyé m’emmerde
Jack Ladder and The Dreamlanders – Come On Back This Way
Be Forest – Captured Heart
Ariel Pink – Put Your Number In My Phone
Wild Moccasins – Eye Makeup
Dead Gaze – Yuppies Are Flowers
Panda Bear – Mr Noah
Wildbirds & Peacedrums – The Offbeat
Museum of Love – Monotronic
Sunset Valley – Jackass Crusher


From abbey to abbey
Report musicale di mezza estate (Parte IV)


di

La cena, dunque, nonostante l’abbondanza di torte e tortini, di salumi e salamelle, di piade e tigelle distribuite dai vari furgoncini sparsi accanto ai portici di Soliera, si rivela impresa non da poco. Questo a causa di un venditore di gnocco fritto in preda a un furibondo deficit dell’attenzione. Il Duffo cerca di allungare le mani sulle cibarie ormai pronte, ma il venditore si gira da tutte le parti, intavola pezzi di discussioni, raccoglie ordinazioni, se ne dimentica, mette uno gnocco sulla friggitrice, rimane con la fetta di salame a mezz’aria, si ricorda di essere sulla terra, e subito decolla con altri frammenti di discorso a vanvera. Ottenuti gli ambiti gnocchi, Duffo entra quindi in fase due: il pagamento. Ed ecco che il venditore si lancia in altre digressioni, intavola conversazioni con i passanti, perde di nuovo il filo. Dopo quindici minuti buoni, sempre sotto la pioggia, la transazione si conclude, tra l’ilarità generale. Mangiamo dunque al ripare dei portici, mentre all’interno della cinemino suonano i Sick Tamburo, che volentieri abbiamo deciso di ignorare.

Il nostro obiettivo per la serata era quello di arrivare in discrete condizioni psicofisiche alla sessione di chiusura, con i Ninos do Brasil all’Arci di Soliera, ben decisi a distruggerci in salti e balli tribali. I Tre Allegri Ragazzi Morti li abbiamo già visti una mezza dozzina di volte a testa nel ridente Nord Est e anche Vasco Brondi, colto in un paio di performance agli esordi, siamo disposti a perderlo. Giorgio Canali, che il Duffo vide con altre sei o sette persone in quel di Villa Varda, parecchi anni fa, ci fa l’effetto di un buon zio rock & roll, e lo lasciamo ai più giovani.

All These Things I Used To Have di Yakamoto Kotzuga

La pioggia comincia a scendere cattiva e capiamo ben preso che i Tre Allegri saranno esposti al maltempo (la sfiga della Tempesta colpisce ancora, puntualissima). Da fuori sentiamo a un certo punto la strumentazione che salta e il concerto che continua a suoni di cori da parte del coraggioso pubblico. Vista la situazione immaginiamo, a ragione, che la serata all’Arci verrà anticipata, e ci apprestiamo a studiare appostamenti nel parcheggio per cogliere l’attimo d’apertura senza dover stare sotto la pioggia.  Mentre stiamo in auto vediamo Vascellari e Fortuni che manovrano, forse per andare alla vana ricerca di qualche cibaria pre concerto, e li osserviamo come agenti segreti o cospiratori, prima di entrare nel locale in attesa delle danze.

E le apre, le danze, il padovano sotto pseudonimo Yakamoto Kotzuga, con un’elettronica accompagnata da chitarra effettata, intelligente, a volte algida, ma ben fatta, trasognata, con un buon misto di rotolamenti post dubstep e venature azzurrine da discepolo dei glitch di Fennesz. I visual scorrono bene, con giapponeserie varie e immagini marziali-gay di Mishima, che fa sempre la sua figura.
I Ninos, non c’è nemmeno da dirlo, spaccano e fanno saltare (anche se buona parte del pubblico, attonito, rimane impalato, forse si attende una mistica apparizione di Vasco Brondi e non si accorge, come certi pagani ignari della venuta di Nostro Signore, che l’evento c’è l’hanno a portata di mano). “Sombra da Lua” fa già capire come gireranno le cose, e così passano le danze techno tribali di Novos Misterios: “Sepultura”, “Essanghelo”, la title track. I Ninos, con le facce pitturate di bianco, sembrano due pappagallini automatici caricati a molla e l’atletico Vascellari ci regala un acrobatico salto da stunt man che conclude sfasciandosi sul palco e facendo pensare al peggio. Subito in piedi, però, a sparare stelle filanti e distribuire strumenti tra il pubblico per arrivare all’orgia finale, scandita dalla ormai classica “Tuppelo”, col Duffo che intona scalmanato “dighi-dighi-dighi”. Immensi, come su disco, e non si sa dove potranno arrivare con il loro sciamanismo elettronico-tropicale.
Il barcone di Claudio Parmiggiani

Il giorno dopo, per il ritorno, in ordine sparso: caccia a un ristorante, ma nella proverbiale e paffuta Emilia la domenica a pranzo, evidentemente, non si mangia. Mostre e installazioni alla fondazione Maramotti, a dimostrazione che a vendere vestiti a prezzi assurdi poi si comprano quadri belli. Foto di artisti della New York anni ottanta, scattate da Jeannette Montgomery Barron, con Warhol, Basquiat, Schnabel, il ritorno della figurazione. E una buona rappresentanza italiana, con Francesco Clemente che sembra un incrocio tra Vascellari e Saviano, Luigi Ontani sotto una fontana romana, Enzo Cucchi perfetto gentiluomo da cazzeggio. In mostra poi Alex Katz, David Salle, parecchia transavanguardia, un cerchio nero di Annette Lemieux, le pistole spara elastici di Tom Sachs, Un quadro fantastico di Mike Kelley, con pannocchie, 666 e bambini satanici, che ovviamente fa pensare a Stephen King. Un’installazione con cuscini che fa venir voglia di stravaccarsi e fare gli scemi, un orso addormentato in una cassa di legno, le voci da babau di Vito Acconci, un barcone tipo isola dei morti, oscuro e minaccioso, appeso al soffitto, opera di Claudio Parmiggiani.

Ancora: l’impossibilità di trovare gnocchi fritti nel deserto di Reggio Emilia, una retrospettiva memorabile di Luigi Ghirri in vecchio palazzone fantasma che sembra stia per crollare. Si mangia in una birreria che manda a tutto volume i CCCP.

 

Prima puntata di “From abbey to abbey – Report musicale di mezza estate”
Seconda puntata di “From abbey to abbey – Report musicale di mezza estate”
Terza puntata di “From abbey to abbey – Report musicale di mezza estate”


True Detective: nichilisti nella palude


di

Io fui di una sostanza condannata a esistere
Io fui di una sostanza rassegnata a rivivere
Io fui di una sostanza rassegnata a riscrivere
Lo stesso codice
Per altra mano

Bachi da Pietra – “Seme Nero”

Cos’è True Detective?

Una gara tra due attori su chi è il più bravo. È fin troppo facile dire che il migliore è Matthew McConaughey-Rust, con lo sguardo allucinato di uno che ha guardato troppo dall’altra parte, per scoprire che non c’è altra parte e tutto è qui, in questo mondo, e dietro il velo non c’è niente.

Una decostruzione del tipico film sulla coppia di poliziotti. Woody Harrelson-Marty è immenso. con la sua bocca all’ingiù e lo sguardo di un uomo che sta sempre sul punto di esplodere. Tra i due, è forse quello che va incontro alla disillusione più dolorosa, quella dell’umano troppo umano e dei valori terreni che si sfasciano, perché a un certo punto tra un uomo e una donna, come viene detto, si mette di mezzo la verità. Matthew McConaughey e Woody Harrelson in True Detective Una storia sul male del detective, che è sempre il vedere troppo o troppo poco. Ed ecco che Rust è quello che ha guardato troppo e anzi, addirittura, soprattutto nella prima puntata, è quello che guarda e disegna, che guarda disegnando sul suo taccuino, riporta la posa delle vittime, il palco che incorona la testa e lo strano disegno a spirale. E Marty quello che vede troppo poco, colui che pecca sempre di disattenzione, che si lascia andare a reazioni eccessive e proprio per questo, ancora una volta, umane.

Un oggetto pop perfetto, la serie più potente, dai tempi di Twin Peaks, nello spingere i fan a cercare indizi, significati, sensi nascosti. Al punto che in rete ci sono fermi immagine, ingrandimenti, interpretazioni allucinate delle allucinazioni visive. I simboli sono comparati, i riferimenti sviscerati, le ipotesi portate al punto di implosione. Proliferano scenari di complotto e letture filosofiche. Gli archetipi junghiani vengono accostati a Nietzsche, la New Orleans popolata da white trash a piccole costruzioni di legno che rimandano a leggende voodoo.

Una serie portale. Con un sacco di ingressi e di uscite che portano a classici della Weird Fiction come Il Re in Giallo (con la misteriosa città di Carcosa), ma anche alla provincia nera alla Lynch, oppure ai libri del post nichilismo contemporaneo, con intere frasi di The Conspiracy Against the Human Race di Thomas Ligotti prese di peso per il memorabile dialogo in macchina tra i due protagonisti [l’omaggio è riconosciuto apertamente dall’autore Nic Pizzolatto in un’intervista ed esiste perfino una bibliografia consigliata – non ufficiale – che accompagna la visione].

Una serie fatta di apparizioni e visioni fugaci. La tenda del predicatore revivalista con frammenti di umanità derelitta; l’allucinante immagine finale della terza puntata, con il meth cooker tatuato che cammina con una maschera antigas in mezzo alla jungla del bayou, apparizione degna dell’arrivo di Willard alla base di Kurtz, in Apocalypse Now. Solo per fare qualche esempio. Charles Halford in True DetectiveE quindi una storia che porta al cuore di tenebra, ovviamente, in una città che sembra fatta solo di zone di conflitto, paludi, apparizioni di torri industriali (che sia quella la spettrale città di Carcosa?), bordelli in roulotte e ritrovi di bande biker. Per non parlare del cadavere da cui inizia tutto, adagiato sotto un albero che è troppo fuori posto e incongruo per non essere oscenamente simbolico, nella pianura assoluta della Louisiana.

Ed è, secondo me, anche una strana serie “padana”, che ricorda gli horror in pieno sole di Pupi Avati o le misteriose evocazioni fantasmatiche di certi film di Bertolucci (e, infatti, al Fiction Fest Carlo Freccero ha avuto l’intuizione geniale di accostare a True Detective La Strategia del Ragno, un altra storia sul senso di colpa e sull’impossibilità di liberarsi del passato). L’orizzonte della Lousiana diventa uno sfondo illusionistico, un fondale teatrale su cui gli sguardi dei protagonisti si posano senza riuscire a trovare un senso dietro il semplice posarsi della luce sull’erba o sull’acqua, come in certe immagini di Luigi Ghirri.

True Detective è sicuramente una serie per cinefili, elogiata dallo stesso Bertolucci; divorata fino all’indigestione da Paul Schrader: al regista di American Gigolo (e sceneggiatore di Taxi Driver) il finale però non è piaciuto, ed è logico, essendo una storia nichilista che sembra un omaggio al cineasta religioso per eccellenza. E True Detective è fin troppo didascalico nel suo pessimismo, almeno quanto era didascalico il capolavoro assoluto di Schrader, Hardcore, con i suoi calvinisti olandesi messi alla prova dal vento capriccioso della grazia.

Altre cose che si vedono: un piano sequenza straordinario, con la cinepresa che non si stacca mai da Rust in una sparatoria nella suburbia della guerra tra bande di spacciatori; una palude che sembra Vietnam, appunto, (e il Vietnam viene citato a più riprese, in effetti, e fa pensare ancora ad Apocalypse Now), ma anche un ricordo del grande I Guerrieri della Palude Silenziosa di Walter Hill. E ci sono, ancora, echi dei giochi di prestigio dei Soliti Sospetti, in cui tutto viene messo in moto da un interrogatorio e quello che si racconta non è ciò che si vede. E poi potrebbe essere un dramma da interni in cui i conflitti familiari vengono descritti in modo non consolatorio, ed è bravissima anche Michelle Monaghan-Maggie,che contribuisce a spingere la vicenda verso i disastri inevitabili. True Detective Mentre scrivo (senza ancora aver visto la fine), True Detective mi pare un enorme remake della Promessa di Dürrenmatt, cioè la storia di un uomo che non riesce a liberarsi di un caso del passato e la cui vita si popola dei fantasmi delle vittime e di un colpevole mai catturato. Ecco allora che True Detective è un requiem per il romanzo giallo; un gotico sudista in cui proliferano simbolismi misteriosi; un giallo paranoico e occultista, pieno di trabocchetti e false piste messe; un racconto di Lansdale con la filosofia al posto delle scazzottate; un David Lynch con più spiegazioni e l’idea che da qualche parte esista una forma di verità, per quanto confusa; un oggetto fatto apposta per generare culti appassionati ed esercizi ermeneutici (ci sono già delle guide per decifrare i simboli contenuti nei disegni tatuati sul corpo di alcuni dei personaggi…).

A proposito, il Re in Giallo è un dramma teatrale che fa impazzire chiunque lo legga. Un’opera che non esiste se non attraverso le citazioni e le allusioni contenute nei racconti della raccolta omonima di R.W. Chambers. Particelle di senso che girano attorno al vuoto. E tutto si avvolge tornando al punto di partenza. Dürrenmatt in salsa weird che formula ipotesi di fisica quantistica nella palude della Louisiana. E Nietzsche, col corpo coperto dai tatuaggi da G.G. Allin, che cuoce metanfetamine pensando all’eterno ritorno.


From abbey to abbey
Report musicale di mezza estate (Parte III)


di

Prendo il testimone e mi appresto a continuare la cronaca dei concerti estivi iniziata da Duffo (I e II parte). Abbattuto dal classico colpo della strega che mi imponeva movimenti da over 70 ho vissuto la trasferta in terra emiliana con la sensazione di essere un peso morto al seguito di Duffo e platipuszen, in vena di pellegrinaggi culturali e artistici. Per fortuna il buen retiro di un Bed & Breakfast ci attendeva, alla sera, tra vecchi dagherrotipi, cassettiere da biciclettaro dei tempi di Bartali e quadretti di ninfe e ragazze allegre degne di un albergo a ore. Così, dopo gli epici martellamenti dei Fuck Buttons, davvero unici nel coniugare melodie, epici crescendo da stadio, bassi vibranti e sfarfallii noise, sono riuscito a riprendermi per la grande giornata della Tempesta. Ovviamente da anni faccio il tifo per il cambio del nome della benemerita etichetta, dato che ogni volta che lancia uno dei suoi eventi estivi, la Tempesta chiama cataclismi e uragani d’ogni genere. E quest’anno, col tempo di merda ormai proverbiale, il trend si conferma. Nuvole a incombere per tutto il giorno e poi prima pioggia mentre siamo in fila per il biglietto. Per fortuna accanto ai portichetti di Soliera ci sono banchi, banchetti e furgoncini ristorante, che fanno venire l’acquolina in vista della cena.

La Tempesta, l'Emilia, la Luna

Arriviamo che Maria Antonietta ha già iniziato. La ragazza urla, si muove tra cantautorato di matrice vascobrondiana, passaggi reggaeggianti e sfuriate elettriche. Non ho seguito tanto lo hype che si è creato intorno a lei. Di certo ha un suo carisma, tiene il palco molto bene, e graffia le melodie pop quel tanto che ci vuole. Unico dubbio: ma non è che Simona Gretchen, che secondo me faceva cose simili in tempi non sospetti (ma senza quella venatura hipsteristerica che evidentemente non guasta) un po’ si incazza a vedere il successo di M.A.? Comunque brava, ce ne fossero, eccetera eccetera.
L’organizzazione, visto il rischio pioggia, decide di trasferire uno dei palchi in un cinemino che dà sulla piazza. E lì corriamo, per non rischiare di perdere gli Altro, il gruppo che più mi incuriosiva.
I tre sotto le luci rosse del palco ci danno dentro, e soprattutto Baronciani fa il rocker quel tanto da mettere un po’ di pepe e rendere la performance molto coinvolgente. Schitarrano alla grandissima, e bombardano con il loro affilato post punk venato di hardcore. Baronciani urla e ulula alla luna, gli altri due gli vanno dietro e tirano sganassoni di ritmiche spaccate. Unico disappunto: ma perché fare un disco (il recente Sparso) pieno di vuoti, morbidezze e melodie, da degni discendenti emotivi di gente come Husker Du e Minutemen, e dal vivo farsi prendere dalla sindrome del power trio col volume a palla? Generando poi effetti collaterali spiacevoli, tipo bimbetti che pogano con lo zainetto rompendo i coglioni a tutti, visto poi che il pogo si è ridotto chissà perché al gioco degli spintoni ai giardinetti.

Gli Altro

E si torna dunque fuori, in un va e vieni un po’ da scemi, per sentire gli Zen Circus. Ora, con gli Zen il sentimento è sempre duplice. Per dire, ho il Nello Scarpellini autografato da Appino dopo un Tora Tora Tora! durante il quale i pisani avevano suonato di pomeriggio davanti a 10 persone 10. Li ho visti in posti improbabili e li ricordo a un memorabile Rospi in libertà (e c’è da qualche parte una mia recensione di un loro devastante live al No Fun di Udine) con Appino che si rotolava in mezzo a deliri elettrici di dieci minuti. E quindi sono contentissimo che ce l’abbiano “fatta” (virgolette d’obbligo dato il posto di merda che è l’Italia musicale). Eppure, sentirli suonare per più o meno un’ora senza uno solo dei loro classici punk in lingua straniera, senza, per dire, “Colombia” o la vecchia “Sailing Song”, lascia l’amaro in bocca. Sarà che con quel loro fisico tiratissimo e le distorsioni da hard rock mi hanno fatto pensare a dei Van Halen di provincia. Ma il volume era troppo basso, l’Appino troppo cotonato, il pubblico troppo giovane. Però, dai, a modo loro restano grandi, come si è sentito con la cover degli Eppu Noormali cantata du UFO e dedicata a Tommy Ramone. Non posso che augurare al circo Zen ogni bene. E poi la recente “Viva” è davvero bella e “Figlio di Puttana” è un classico del pop italiano, vicino a Rino Gaetano e Battisti, e tanto basta.

A quel punto via con la cena, ma questo è un altro capitolo.

 

Prima puntata di “From abbey to abbey – Report musicale di mezza estate”
Seconda puntata di “From abbey to abbey – Report musicale di mezza estate”


“Oh, Yeah!” Bibite, LSD e controllo mentale


di

Allora, l’altra sera, dopo essermi visto L’uomo che fissava le capre, con la pioggia che batteva furiosa sulle persiane, avevo deciso di mettere sul lettore un cd dei Byrds, per farmi cullare dalle loro chitarre luminose e dai coretti simil folk. Come il mio solito, mi sono poi messo al computer per cercare qualche considerazione o qualche recensione dedicata al glorioso gruppo sixties capitanato da David Crosby, celebre tra l’altro per aver raggiunto il successo suonando “Mr Tambourine Man” di Bob Dylan e per avere scritto un inno pop ricavando il testo dall’Ecclesiaste. Arrivato sul sito di Julian Cope, Head Heritage, mi sono letto una recensione del terzo disco dei Byrds, scritta da uno dei numerosi amici dall’arcidruido che si dedicano a cantare le lodi di ronzii elettronici, disturbi psichedelici, freakkettonismi vari, tribalismi semi krauti, protopunkers paganeggianti e altre amenità.
Nella recensione si fa riferimento alla copertina del disco, intitolato Fifth dimension. Sulla copertina, foto su fondo nero col nome scritto in caratteri semi indiani Paisley e i nostri con i capelli non ancora del tutto lunghi vestiti come i loro nipotini hipster che dovevano ancora nascere. I quattro Byrds sono su un tappeto orientale che, messo com’è sul fondo nero, sembra una specie di tappeto magico che li stia trasportando da qualche parte. Ma la cosa strana è un’altra. I nostri eroi hanno tutti quanti in mano un bicchiere di carta, tipo quelli che ti danno da Mc Donald’s o al cinema, di Kool-Aid. Negli anni avevo già sentito parlare di quella strana bevanda, ma non avevo mai approfondito la cosa. Allora sono andato a cercare qualche informazione in più.

Il Kool-Aid è una specie di bibita non gassata che può essere di vari gusti e viene creata mescolando una polverina magica con acqua e zucchero. L’ha creata un certo Edwin Perkins negli anni venti in America ed è venduta ancora oggi, con campagne mirate in modo specifico al pubblico dei latinos. Pur senza sapere bene di cosa si trattasse, il Kool-Aid lo conoscevo per due motivi: è famoso perché negli anni sessanta il celebre giornalista Tom Wolfe l’ha messo nel titolo del suo The Electric Kool-Aid Acid Test, mitico reportage su Kevin Kesey e sui Merry Pranksters, uscito nel 1968. Il titolo si riferisce appunto a un Acid Test compiuto in California durante il quale una buona quantità di LSD era stata mischiata al Kool-Aid in polvere. Nel libro, seguendo le peregrinazioni del gruppo di pre-hippy e del loro scuolabus psichedelico, si incontrano una serie di personaggi ormai entrati nella leggenda della controcultura: gli Hell’s Angels, i Grateful Dead (che suonarono proprio durante uno dei test di Kesey e per l’occasione cambiarono nome, passando da “Warlocks” a quello definitivo), Allen Ginsberg e compagnia bella. Tra processi e trip di ogni tipo il libro segue le vicende di Kesey e dei suoi accoliti fino all’esilio in Messico, al riparo dai vari mandati di arresto che gli pendevano sul capoccione. Ah, per inciso, il Messico è il luogo in cui attualmente viene prodotto il Kool-Aid.
Comunque i nostri Byrds sul tappeto magico nel 1966 tengono in mano bicchieroni di Kool-Aid e questo fa pensare che gli autori dell’immortale inno psichedelico “Eight Miles High” (che ufficialmente parla della paura di volare di uno dei quattro ma, con tutte quelle schitarrate simil raga indiano, quel basso rimbalzante e quelle parole, sembra parlare di ben altro tipo di viaggio) stessero esplorando gli stessi territori dei Merry Pranksters, che in quel fatidico anno fecero anche loro uscire un disco, chiamato, ovviamente, Acid Test. Che il logo della bibita, un mostruoso uomo caraffa pieno di Kool-Aid liquido avesse una evidente derivazione lisergica è innegabile. Nelle pubblicità usciva dai muri delle camere dei ragazzi e, oltre a preparargli un’abbondante dose di bevanda, pronunciava la sua frase tipo (come si vede in numerosi epsidosi dei Griffins). La sua catch phrase era “Oh, Yeah!”. Neanche il “Dude” Lebowski avrebbe potuto escogitare una cosa del genere.

Quindi ci sono buone probabilità che quando nei fumetti o nei film si vedono i classici ragazzini che d’estate vendono bibite fresche ai passanti, non si tratti di tè, limonata o camomilla ma di belle caraffone di Kool-Aid, chissà se modificato oppure no…
Ma il bello del grande paese è che dietro a ogni storiella piena di colorini lisergici, chitarrine jingle jangle e bevande fresche per ragazzini c’è in agguato il lato oscuro. Tipo Manson con gli hippie o il misterioso Mr Dark che arriva nel paesino di provincia in Something wicked this Way Comes. E qui troviamo il secondo motivo per cui avevo sentito parlare della bibita in polvere.
Non mi riferisco ai noti problemi di salute di David Crosby, un uomo che ha consumato più sostanze di un gruppo di fattoni di medie dimensioni a Bologna nel 1977. La faccenda è molto più macabra ed è collegata a uno di quegli eventi traumatizzanti che di tanto in tanto si verificano, scuotendo l’America e trasformando i suoi sogni in incubi. Il fatto è che “Bere il Kool-Aid” significa farsi imbottire la testa di baggianate da parte di leader, guru e maestri spirituali vari. Questa forma di mind fucking deriva dal fatto che nel 1974 il buon reverendo Jim Jones, il grande capo del Tempio del Popolo, invitando i suoi seguaci a darsi la morte nel bel mezzo della jungla della Guyana, a Jonestown, ebbe la bella pensata di mescolare cianuro e sonniferi al Kool-Aid. Da cui abbiamo appunto “Drinking the Kool-Aid”, nel senso di farsi indottrinare o manipolare dal leader di un culto o da qualche altro presunto gran maestro, ed ecco la seconda catch phrase collegabile alla nostra bibita, dopo quella dell’omino caraffa che esce dai muri. “Oh, Yeah!”
In realtà, e questo è l’ultimo passaggio, il Reverendo Jones non aveva fatto bere del Kool-Aid, ma del Flavor-Aid, bibita concorrente (o quantomeno aveva avvelenato l’una e l’altra bibita, e forse ce n’erano anche delle altre tra le scorte della comunità). Ma siccome Kool-Aid era diventato una sorta di nome generico (come Coca-Cola per indicare qualsiasi tipo di Cola), l’opinione pubblica consegnò per la seconda volta all’eternita (dopo il libro di Tom Wolfe) la nostra bevanda in polvere. Va detto che nella lotta tra i due personaggi simbolo, l’omino della Flavor Aid, un triste uomo cannuccia senza gambe immerso perennemente nel liquido colorato, perde decisamente il confronto con il fantastico uomo caraffa. Anche se a volte avere un brand di successo può avere effetti collaterali davvero imprevedibili. Noto en passant che anche il Flavor Aid viene indirizzato soprattutto a un pubblico di latinos e non so se da questo si debba trarre qualche inquietante conclusione.


Per non finire su queste note cupe, ritorno su Kesey, che oltre ad essere il capo dei Merry Pranksters, è stato anche l’autore del libro Qualcuno volò sul nido del cuculo. I primi contatti con l’acido pare li avesse avuti grazie alla CIA, dato che aveva preso parte come volontario alle sperimentazioni collegate al progetto super segreto MKUltra, il programma di controllo della mente dei servizi di intelligence americani. I solerti funzionari governativi erano in quegli anni impegnati a combattere il pericolo rosso cercando droghe per far confessare i prigionieri ed escogitando nuovi modi per fare il lavaggio del cervello. Cioè, in un certo senso, cercavano di capire come funzionano i meccanismi per manipolare la mente, ovvero per far “Bere il Kool-Aid” alle persone. Pare tra l’altro che in un incredibile cortocircuito tra verità e finzione, gli uomini a capo del programma MKUltra avessere tratto ispirazione per le loro ricerche dal film The Manchurian Candidate e come sempre nel nostro tempo iperpop è sempre difficile capire se sia la fiction a prendere spunto dal mondo reale o se sia la realtà stessa ad essere strutturata come una specie di fiction lisergica in cui i dissetanti Kool-Aid Men tengono per mano i fantomatici Men in Black. Un momento, però. Dove ho già incontrato il nome MKUltra? Nel libro di Jon Ronson L’uomo che fissava le capre. Da cui è stato tratto il film che ho visto prima di mettere su il cd dei Byrds. Nelle prime pagine del libro e nei primi minuti del film un generale a capo dei servizi di Intelligence cerca di allentare con il pensiero i propri legami molecolari per passare attraverso un muro. Proprio come faceva l’uomo caraffa.
“Oh, Yeah!”


Al servizio di Sua Maestà
Silverio e Dellarge al Codalunga


di

Al Codalunga, per la serata di chiusura made in Mexico, si parte con l’electro convulsa e rumorosa di Dellarge, davanti a un pubblico ridottissimo. Ci siamo io, il Duffo e qualche altro spettatore, un paio dei quali in evidente stato alterato. Accanto a noi, con maglioncino girocollo a righe e un enigmatico capello corto, c’è Silverio, che ancora non è diventato “quel” Silverio e sembra uno capitato lì per caso. Batte il ritmo col piedino e fa strani movimenti con il collo come un luchador che si scalda prima di salire sul ring. Alle 23.40, attirati da un segnale ultrasonico, arrivano gli altri, e la sala si riempie. Dellarge lancia sciabolate elettriche, chinato sulla consolle come un bravo ragazzo che studia per l’interrogazione del giorno dopo. L’atmosfera è già carica, inizia a fare caldo, e quando il set termina, usciamo per prendere un po’ d’aria.
Nemmeno il tempo di accendersi una sigaretta che la voce declamante di Su Majestad Imperial ci richiama dentro. Silverio è lì, in tutto il suo splendore. Giacchetta bianca da matrimonio, stivaletti alla caviglia e le immancabili mutande rosse. Ha indossato la sua caratteristica parrucca a metà tra un mullet anni ottanta e una frangia tagliata con la scodella. Subito con il classico mix di elettronica scarna, bassi che saltellano e piccole melodie latineggianti, la temperatura inizia ad aumentare e lui pare scosso da qualche disturbo neurologico tipo sindrome di Tourette, fa piccoli passi sul posto, percuote arrabbiato la sua strumentazione e lancia improperi, più o meno comprensibili, verso tutto e tutti. La situazione sale di intensità e la gente comincia a ballare per davvero.

A un certo punto arriva il giro di basso della mega hit Perro, ed è il delirio. Electropunk latina da festa tra le rovine di Città del Messico. Una bolgia nelle prime file, si balla scomposti, chi saltella, chi in preda a convulsioni da rave, chi accenna una skank da sfattone. Silverio inizia a denudarsi e a sudare, si muove tra il pubblico, manda allegramente a fanculo tutti, insulta i parenti, con particolare attenzione per le madri. È un autentico showman, mezzo sacerdote estatico mezzo capobanda scalcinato, tra una pioggia di battiti potentisssimi e schizzi di birra. Sempre più sprofondati tra i corpi iniziamo ad accennare un po’ di pogo, sbattacchiati dai baldi giovani inneggianti al piccolo imperatore.
Man mano che il set procede, con il Duffo che canticchia la melodia contagiosa di Salon de Beleza come se non avesse fatto altro negli ultimi dieci anni, Silverio si preoccupa per le scosse che gli arrivano dall’attrezzatura, nel timore di rimanere fulminato tra i monti del nord Italia. E va detto che con tutto quel sudore sulla panza il rischio è reale. Gli rubano il microfono e lui, con tipici sbalzi di umore da Sua Maestà in esilio, un po’ è contento e un po’ si incazza. Recuperato lo strumento del mestiere, chiede l’aiuto di Dellarge e insieme avvolgono il microfono in una specie di tela fetida, mentre la giacchetta bianca, ormai ridotta a un cencio ributtante, passa tra il pubblico. Il musicista desnudo si toglie anche gli stivaletti, compiendo rituali ignoti ai più. Un paio di malcapitati tentano il selfie con la star messicana e Silverio li ricambia sottraendogli il telefonino e infilandoselo nelle leggendarie mutande scarlatte, coperte di birra e di sudore. Dopo il siparietto telefonico Sua Maestà Imperiale si concentra sull’ultima parte del set, mentre gli astanti sono ormai preda di un’estasi senza ritorno. Tra loro, lo stesso Vascellari, che scuote la testa come se fosse davanti al muro del pianto. Rumori e accelerazioni poderose, ipnotiche, avvolgono la sala mentre il performer messicano, che ha sostituito il Mezcal con lo Jagermeister, arringa i presenti in modo incomprensibile. Ultimi sussulti di pogo per il gran finale, con impossibili frenesie breakcore che rompono la resistenza dei prodi ballerini per arrivare, in coda, a una prolungata serie di rullate da metallari cialtroni. Alla fine, Silverio mostra il dito, se ne va a passi rapidi e scompare. Il resto, dice qualcuno, è silenzio.


Dead Parrot’s Summer 2014 Compilation


di
and


Sean Bones – Hit Me Up
Liars – Mess On A Mission
Death Vessel – Mercury Dime
Lonely The Brave – Backroads
Hooded Fang – Younger Days
Temples – Colours To Life
Ninos Du Brasil – Sombra Da Lua
Avey Tares Slasher Flicks – Little Fang
Isaac Delusion – She Pretends
Foster The People – Best Friend
St. Vincent – Birth In Reverse
Constantines – Young Lions
Jack White – Lazaretto
Mustang – Ecran total


L’incantatore: Sir Richard Bishop


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Lo scenario che mi sono immaginato è più o meno questo: state attraversando gli States su una macchina scassata. In mezzo a una zona deserta vi fermate a far benzina e incontrate un vecchietto alcolizzato e senza denti che vi fa strani racconti di rapimenti compiuti da extraterrestri che in realtà sono antichi dei in incognito. A un certo punto il vecchietto tira fuori dalla tasca un libretto tutto un unto e ve lo regala. Contiene le formule magiche per evocare alcune divinità guerriere uscite da qualche remoto racconto indiano. Non è che riusciate a leggere, perché le pagine sono piene di disegni e simboli incomprensibili, ma in un certo senso vi rendete conto che le cose stanno così. Sentite uno strano rumore e alzate gli occhi. Il vecchietto è sparito e al suo posto è rimasto un fantoccio con addosso una maschera balinese. Dalla radio, che fino a quel momento ha trasmesso rock classico anni settanta, inizia a uscire il suono ipnotico del gamelan, interrotto solo da sibili di statica e brevissimi riff di chitarra distorta. Una delle cameriere del bar inizia a ballare come una danzatrice del ventre e vi accorgete che i passi che sta compiendo sono l’esatta replica dei segni e dei simboli contenuti nel libretto misterioso.

La biografia non sempre dice quello che davvero conta sulla vita di una persona, tantomeno su quella di un’artista. Per capire chi è Sir Richard Bishop è però interessante raccontare qualche episodio: figlio di un emigrato Libanese che, dopo periodo passato a raccogliere gomma in Brasile, si è trasferito a Phoenix, Arizona. Rick passa l’infanzia in una casa ricca di suoni e sapori orientali, frequentata dai membri della stravagante comunità libanese della zona. In questo periodo incamera tutto quello che gli entra nelle orecchie, senza curarsi troppo della provenienza. Col fratello Alan, attraverso il nonno massone, entra in una loggia per ragazzini (!??) e inizia ad interessarsi all’occulto, alla spiritualità e alle conoscenze esoteriche.

Incomincia a suonare la chitarra prendendo spunto dagli idoli del tempo, da Jimmy Page a Ted Nugent. Un po’ alla volta il profluvio di suoni e atmosfere assorbite nel corso degli anni prende a farsi strada nei suoi interessi musicali. Assieme ad Alan e al batterista Charles Gocher fonda le Sun City Girls, una delle band più eccentriche che abbiano mai calcato i palchi. Potrebbero essere genericamente definite un punk trio se il punk avesse a che fare con rituali balinesi, teatro da strada, cialtronerie esotiche, esperimenti mentali, rumorismo esasperato, raga indiani, percussioni tribali, melodie dalla provenienza misteriosa capatate su radioline scassate.

Passando da cover hard rock a lunghissime suite psichedeliche sorrette dalle declamazioni androgine di Alan Bishop i Sun City girls fanno incazzare le platee alternative degli anni ottanta e novanta facendo sempre il contrario di quello che ci si sarebbe aspettati da loro: happening teatrali, dischi di Coltrane suonati in playback, evocazioni di medium transessuali birmani, cover deliranti della Lambada, nenie cantate in linguaggi che non esistono, assalti metal, blues alla Trout Mask Replica, scale arabe, surf messicano, pop tahilandese, improvvisazioni free rock. Musica spaziale e trascendente che diventa all’improvviso ciarlatanesca e fracassona, e viceversa, come quella di Sun Ra. I titoli della loro torrenziale discografia possono bastare per rendere l’idea: dischi come Torch of the Mystics, Valentines for Matahari e 330.003 Crossdressers from Beyond Rg Veda e canzoni come “Space Profet Dogon”, “Esoterica of Abyssynia”, “Papa Legba”, “Archaeoptryx in the Slammer”, “Diamond Macaque”, “The Venerable Uncle Tompa” sono una buona sintesi del loro universo musicale. Ed ecco quindi la storiella all’inizio di questo pezzo, che potrebbe intitolarsi “cose viste ascoltando alcuni dischi delle Sun City Girls e leggendo i titoli delle loro canzoni”.

Insomma, le Sun City Girls diventano un culto, spiazzano molti spettatori, pubblicano decine di dischi, regalano perle sublimi e qualche bel mucchio di “merda di pterodattilo” (l’hanno detto loro). I fratelli Bishop girano il mondo, specie in Asia, divertendosi a registrare trasmissioni radiofoniche, rituali nella foresta, musicisti da strada. Comprano cassette dai banchetti improvvisati che si trovano nei mercati delle zone in cui arrivano. Creano la label Sublime Frequencies per far uscire tutto quello che hanno captato in giro per il mondo. A volte con qualità sonora scarsa e note di copertina ancora più carenti, in piena coerenza con lo spirito anti archivistico e anti filologico di tutto quello che fanno. Un po’ di polemiche di colonialismo culturale (ma loro giurano che i soldi, se ci riescono, li fanno arrivare agli interessati), il plauso per qualche scoperta incredibile diventata ormai mainstream (vedi il fantastico cantante di matrimoni siriano Omar Souleyman, con recente disco prodotto da Four Tet).

Da qualche tempo le Sun City Girls non esistono più. Charles Gocher è morto e il progetto è andato giustamente in pensione. Alan Bishop continua a cantare le sue nenie pan-esotiche col progetto Alvarius B. Richard Bishop, a parte il supergruppo (in senso underground) Rangda con Chris Corsano e Ben Chasny e la sua occupazione di compravendita di libri di magia e altre amenità esoteriche va in giro a fare concerti da solista.

E qui arriva il perché di questo articolo un po’ confuso che sto scrivendo.Qualche settimana fa, per un improvviso cambio di programma, andiamo a vedere a Tarcento Sir Richard Bishop. Al quarto piano di Villa Moretti, in cima a una collina, circondati dalle luci suggestive della cittadina e della pianura distante. Dopo la fine del concerto di Maurizio Abate, musicista da approfondire, con la sua pioggia di droni atmosferici e suggestivi, arriva Bishop. Alto, un po’ trasandato nel vestire, con cappelluccio da sufi in testa e barbetta da illusionista. Prende la chitarra e si lancia in una sequenza ininterrotta in cui ci sta dentro di tutto: musica araba ed egiziana, incursioni furibonde nel flamenco, momenti di ipnosi simil indiana, passaggi di Americana registrati in qualche anfratto dei monti Appalachi, piccole aperture melodiche e jazzate, momenti quasi pop. Il pubblico ascolta come fosse in preda a un incanto. Alla fine del concerto la chitarra ha due corde in meno ma non sembra essere un grande problema. Vado a comprare un paio di dischi e lui gentilissimo mi da la mano, come fanno di solito gli americani, che oltre a tirarsela meno di noi italiani sono spesso molto educati. Non so mai se quelli che seguono percorsi magico-esoterici ci credono sul serio o se danno una lettura simbolico-metaforica della cosa (il dubbio che si ha con Alan Moore ad esempio), ma è certo che ascoltando Sir Richard Bishop vengono spontanee parole come evocazione e trance. Quando suona da solo, ha detto una volta, ci sono un sacco di presenze vicino a lui. Chissà… Forse è semplicemente un grande musicista che si sente libero di attraversare i generi e i continenti, mettendo dentro tutto quello che ha incontrato in una vita fuori del comune, fregandosene del purismo e delle aspettative, come ha sempre fatto.

 


La faccia di B.H.


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Non mi piacciono i coccodrilli e le commemorazioni, ma quando ho saputo che Bob Hoskins era morto stavo guardando The Long Good Friday da circa un’ora e fino al momento in cui ho iniziato a guardarlo il buon Bob era per me “solo” l’attore di Roger Rabbit, di Hook, del Viaggio di Felicia di Egoyan e di qualche altro buon film. Pur essendo un appassionato di cinema inglese per qualche strana congiuntura non avevo mai visto quelli che vengono considerati i due film più belli da lui interpretati, cioè Mona Lisa e, appunto, The Long Good Friday.
Quindi, mentre stavo guardando per la prima volta nella mia vita The Long Good Friday ho saputo che Bob Hoskins era morto, e la cosa era strana, a causa di quell’effetto che solo il cinema sa dare: l’evocazione di fantasmi, come diceva Cocteau, “la morte al lavoro sul corpo degli attori”. Allora sarebbe facile ammantare di significati quella che è solo una coincidenza, ma The Long Good Friday è davvero un grande film, di sicuro uno dei più bei film di gangster inglesi (se la gioca con Get Carter e Sexy Beast), ma è anche molte altre cose. Un film sullo sfascio della vita di un personaggio, sull’impossibilità di sentirsi arrivati, sulla tranquillità che va in pezzi, mentre in una giornata infernale tutto il mondo costruito da un gangster londinese si disintegra, tra bombe, accoltellamenti, tradimenti, premonizioni, vendette. E allora ecco che il senso del film di gangster può stare tutto nel fotogramma nero alla fine del film, prima dei titoli di coda: dopotutto ogni film noir è un film che parla della fine, seguendo la pendenza che fa rotolare in basso la vicenda verso uno stato zero dell’immagine e dei personaggi. Anche se è riduttivo, i film noir di solito si amano per come finiscono.
Prima di quel fotogramma nero, però, succede qualcosa. E non vorrei dire troppo perché questo è un film che va visto fino in fondo partendo dall’inizio, anche se fin dai primi secondi ci immaginiamo tutti quale può essere il finale, qual’è la necessità che trascina verso qualcosa di inevitabile questo personaggio che verrebbe da definire shakespeariano. Un personaggio che vive sul bordo di una storia in cui si intreccia un po’ di tutto, il terrorismo dell’IRA, il rampantismo economico che annuncia gli anni nerissimi del thatcherismo, il declino britannico alla fine degli anni settanta (ma anche l’orgoglio cockney rivendicato nel fantastico discorso ai “partner” americani). Prima del fotogramma nero ci sono circa 90 secondi in cui Bob Hoskins non è solo un buon attore o un grande attore; ci sono 90 secondi di quelli che molti grandi attori non riescono ad avere in tutta la loro carriera, ed è solo un gioco di occhi, faccia, bocca, collo, denti.
Davvero, se vuol dire qualcosa, il finale di The Long Good Friday è il senso di una storia che si consuma, di tutte le cose che finiscono, forse anche il senso di una vita, nella faccia di Bob Hoskins in un film di gangster.