L’incantatore: Sir Richard Bishop


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Lo scenario che mi sono immaginato è più o meno questo: state attraversando gli States su una macchina scassata. In mezzo a una zona deserta vi fermate a far benzina e incontrate un vecchietto alcolizzato e senza denti che vi fa strani racconti di rapimenti compiuti da extraterrestri che in realtà sono antichi dei in incognito. A un certo punto il vecchietto tira fuori dalla tasca un libretto tutto un unto e ve lo regala. Contiene le formule magiche per evocare alcune divinità guerriere uscite da qualche remoto racconto indiano. Non è che riusciate a leggere, perché le pagine sono piene di disegni e simboli incomprensibili, ma in un certo senso vi rendete conto che le cose stanno così. Sentite uno strano rumore e alzate gli occhi. Il vecchietto è sparito e al suo posto è rimasto un fantoccio con addosso una maschera balinese. Dalla radio, che fino a quel momento ha trasmesso rock classico anni settanta, inizia a uscire il suono ipnotico del gamelan, interrotto solo da sibili di statica e brevissimi riff di chitarra distorta. Una delle cameriere del bar inizia a ballare come una danzatrice del ventre e vi accorgete che i passi che sta compiendo sono l’esatta replica dei segni e dei simboli contenuti nel libretto misterioso.

La biografia non sempre dice quello che davvero conta sulla vita di una persona, tantomeno su quella di un’artista. Per capire chi è Sir Richard Bishop è però interessante raccontare qualche episodio: figlio di un emigrato Libanese che, dopo periodo passato a raccogliere gomma in Brasile, si è trasferito a Phoenix, Arizona. Rick passa l’infanzia in una casa ricca di suoni e sapori orientali, frequentata dai membri della stravagante comunità libanese della zona. In questo periodo incamera tutto quello che gli entra nelle orecchie, senza curarsi troppo della provenienza. Col fratello Alan, attraverso il nonno massone, entra in una loggia per ragazzini (!??) e inizia ad interessarsi all’occulto, alla spiritualità e alle conoscenze esoteriche.

Incomincia a suonare la chitarra prendendo spunto dagli idoli del tempo, da Jimmy Page a Ted Nugent. Un po’ alla volta il profluvio di suoni e atmosfere assorbite nel corso degli anni prende a farsi strada nei suoi interessi musicali. Assieme ad Alan e al batterista Charles Gocher fonda le Sun City Girls, una delle band più eccentriche che abbiano mai calcato i palchi. Potrebbero essere genericamente definite un punk trio se il punk avesse a che fare con rituali balinesi, teatro da strada, cialtronerie esotiche, esperimenti mentali, rumorismo esasperato, raga indiani, percussioni tribali, melodie dalla provenienza misteriosa capatate su radioline scassate.

Passando da cover hard rock a lunghissime suite psichedeliche sorrette dalle declamazioni androgine di Alan Bishop i Sun City girls fanno incazzare le platee alternative degli anni ottanta e novanta facendo sempre il contrario di quello che ci si sarebbe aspettati da loro: happening teatrali, dischi di Coltrane suonati in playback, evocazioni di medium transessuali birmani, cover deliranti della Lambada, nenie cantate in linguaggi che non esistono, assalti metal, blues alla Trout Mask Replica, scale arabe, surf messicano, pop tahilandese, improvvisazioni free rock. Musica spaziale e trascendente che diventa all’improvviso ciarlatanesca e fracassona, e viceversa, come quella di Sun Ra. I titoli della loro torrenziale discografia possono bastare per rendere l’idea: dischi come Torch of the Mystics, Valentines for Matahari e 330.003 Crossdressers from Beyond Rg Veda e canzoni come “Space Profet Dogon”, “Esoterica of Abyssynia”, “Papa Legba”, “Archaeoptryx in the Slammer”, “Diamond Macaque”, “The Venerable Uncle Tompa” sono una buona sintesi del loro universo musicale. Ed ecco quindi la storiella all’inizio di questo pezzo, che potrebbe intitolarsi “cose viste ascoltando alcuni dischi delle Sun City Girls e leggendo i titoli delle loro canzoni”.

Insomma, le Sun City Girls diventano un culto, spiazzano molti spettatori, pubblicano decine di dischi, regalano perle sublimi e qualche bel mucchio di “merda di pterodattilo” (l’hanno detto loro). I fratelli Bishop girano il mondo, specie in Asia, divertendosi a registrare trasmissioni radiofoniche, rituali nella foresta, musicisti da strada. Comprano cassette dai banchetti improvvisati che si trovano nei mercati delle zone in cui arrivano. Creano la label Sublime Frequencies per far uscire tutto quello che hanno captato in giro per il mondo. A volte con qualità sonora scarsa e note di copertina ancora più carenti, in piena coerenza con lo spirito anti archivistico e anti filologico di tutto quello che fanno. Un po’ di polemiche di colonialismo culturale (ma loro giurano che i soldi, se ci riescono, li fanno arrivare agli interessati), il plauso per qualche scoperta incredibile diventata ormai mainstream (vedi il fantastico cantante di matrimoni siriano Omar Souleyman, con recente disco prodotto da Four Tet).

Da qualche tempo le Sun City Girls non esistono più. Charles Gocher è morto e il progetto è andato giustamente in pensione. Alan Bishop continua a cantare le sue nenie pan-esotiche col progetto Alvarius B. Richard Bishop, a parte il supergruppo (in senso underground) Rangda con Chris Corsano e Ben Chasny e la sua occupazione di compravendita di libri di magia e altre amenità esoteriche va in giro a fare concerti da solista.

E qui arriva il perché di questo articolo un po’ confuso che sto scrivendo.Qualche settimana fa, per un improvviso cambio di programma, andiamo a vedere a Tarcento Sir Richard Bishop. Al quarto piano di Villa Moretti, in cima a una collina, circondati dalle luci suggestive della cittadina e della pianura distante. Dopo la fine del concerto di Maurizio Abate, musicista da approfondire, con la sua pioggia di droni atmosferici e suggestivi, arriva Bishop. Alto, un po’ trasandato nel vestire, con cappelluccio da sufi in testa e barbetta da illusionista. Prende la chitarra e si lancia in una sequenza ininterrotta in cui ci sta dentro di tutto: musica araba ed egiziana, incursioni furibonde nel flamenco, momenti di ipnosi simil indiana, passaggi di Americana registrati in qualche anfratto dei monti Appalachi, piccole aperture melodiche e jazzate, momenti quasi pop. Il pubblico ascolta come fosse in preda a un incanto. Alla fine del concerto la chitarra ha due corde in meno ma non sembra essere un grande problema. Vado a comprare un paio di dischi e lui gentilissimo mi da la mano, come fanno di solito gli americani, che oltre a tirarsela meno di noi italiani sono spesso molto educati. Non so mai se quelli che seguono percorsi magico-esoterici ci credono sul serio o se danno una lettura simbolico-metaforica della cosa (il dubbio che si ha con Alan Moore ad esempio), ma è certo che ascoltando Sir Richard Bishop vengono spontanee parole come evocazione e trance. Quando suona da solo, ha detto una volta, ci sono un sacco di presenze vicino a lui. Chissà… Forse è semplicemente un grande musicista che si sente libero di attraversare i generi e i continenti, mettendo dentro tutto quello che ha incontrato in una vita fuori del comune, fregandosene del purismo e delle aspettative, come ha sempre fatto.

 


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