La Folgorazione del Cretino: rivedere, rileggere, riascoltare


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Prendo al balzo la palla servita da Mastro Stout nel suo post perché il ragionamento che suggerisce è molto interessante. Confesso subito di essere uno che tende a ripetere le esperienze di fruizione estetica: rivedo film, rileggo libri e fumetti, riascolto musica, e spesso mi sono trovato a vivere l’esperienza descritta dal Mastro: delusione per aver ripreso in mano un certo fumetto o per aver fatto partire un film amato negli anni passati. La cosa interessante, secondo me, è che queste esperienze di delusione (o di rinnovato entusiasmo) dicono forse più cose su di noi, su come il tempo ci ha cambiati e su come i ricordi si impastano fino a decretare statuti mitici per cose che forse mito non sono, ma che comunque in un modo o nell’altro hanno avuto un impatto su di noi. Vorrei parlare non tanto delle riletture o revisioni deludenti, ma delle diverse tipologie di piacere che provo nel ritornare a un libro, un disco, un fumetto, ecc.


Nel tempo ci capita di incontrare opere che, in vari modi, cambiano il nostro modo di entrare in rapporto con una determinata espressione artistica: capolavori indiscussi o folgorazioni personali o soprendenti momenti di svolta. Mi ricordo, nella seconda metà degli anni ottanta, la scoperta, a bocca aperta, sulle pagine di “Horror” e “DC Comics presenta” (entrambe edite dalla Comic Art), dei primi episodi dello Swamp Thing di Alan Moore o di Sandman. Per me, piuttosto distante dal fumetto americano, l’incontro con questi fantastici manipolatori di codici rappresentò un’esperienza straordinaria. Poi, col tempo, dopo varie riletture, si è creata una forma di familiarità che ha un po’ attutito l’impatto, portandomi non tanto a ridimensionare le opere di Alan e Neil, quanto a metterle in prospettiva. Dopo alcuni anni, allontanandomi dalla passione feroce per il fumetto, non ho più sentito il bisogno di riprenderli in mano, ma ho continuato a cercare quel tipo di situazione e di esperienza, l’incontro con un’opera che ti lascia tramortito a chiederti cosa è successo. Anche altri incontri successivi, che so, Akira di Otomo o Black Hole di Burns, le opere di Enki Bilal, The Invisibles di Morrison, per quanto splendidi, non mi hanno dato la stessa sensazione di scoperta assoluta. Forse dipende da una serie di fattori difficili da replicare, un misto di attesa, necessità, sete di scoperta e un pizzico di inconsapevolezza. Come girare un angolo e trovarsi di fronte a un monumento o a una montagna che non sapevi fosse lì ad attenderti. Dopo la prima volta, sai già cosa aspettarti e anche se il prossimo monumento o la prossima montagna sarà più bella della prima, il fatto stesso di aspettarti qualcosa rende l’impatto meno forte.
Lo stesso accade col cinema, ricordo ancora la prima visione, in seconda serata, su Rete 4, di Profondo Rosso. Ero in seconda o terza media, e da quel momento il mio amore per il cinema horror diventò assoluto. E so bene che, qualsiasi cosa accada, niente replicherà quella nottata, quel terrore misto a piacere provato nell’entrare insieme a David Hemmings nella vecchia casa o nella scuola alla ricerca dei disegni dell’assassino. E anche se il buon Dario è ormai ridotto a un’ombra di se stesso, gli dovrò per sempre la scoperta di un modo di fare paura al cinema. Più da vicino mi è capitato qualcosa di simile con certa elettronica inglese, tipo Burial o Demdike Stare: la sensazione di trovarsi di fronte a un cambiamento di percezione, la scoperta di suoni e atmosfere che non avrei pensato di trovare nei pochi minuti di un pezzo. La cosa interessante è che la folgorazione è arrivata dopo che per parecchi anni avevo smesso di ascoltare musica recente: come dire che occorre tornare ad essere un po’ ingenui e inesperti per farsi sorprendere. Un’altra riflessione: quando rientri in contatto con certe opere, parte il mitico effetto madeleine proustiana, ritorni alla prima volta che hai visto o letto quella cosa. Quando ascolto Master of Puppets dei Metallica abbasso ogni soglia di valutazione critica, e torno ad essere un metallaro di 15 anni, senza se e senza ma. Forse questa è però una sottocategoria: folgorazioni talmente potenti in cui tu sei in qualche modo diventato parte dell’opera stessa.

Ci sono poi esperienze che derivano dalla capacità da parte di un’autore di creare e arredare un mondo completo (uso questo concetto prendendolo da Umberto Eco, maestro a sua volta nel creare mondi narrativi immersivi, come ne Il Nome della Rosa o Il Pendolo di Foucault). Sono i grandi creatori di universi, architetti o stregoni che ricreano una realtà parallela alla nostra, con delle regole e un’estetica proprie. In questo caso il piacere deriva non dalla scoperta di qualcosa di nuovo ma, come un bambino che ascolta una fiaba, nel ritrovare le cose esattamente come sono. Questa è la forza, per me, di TinTin o Asterix, oppure di Star Wars o, in modo diverso, di 8 e 1/2 e Amarcord, di molti film di Polanski o Wes Anderson, di serie come Freaks & Geeks o The League of Gentlemen. Entri in un mondo che hai già visitato molte volte e godi del fatto di conoscerne appieno le regole, il funzionamento, i meccanismi, i personaggi, gli abiti, le inquadrature. Sono spesso costruzioni maniacali, con regole complesse, e istruzioni per l’uso dettagliate: gli orari dell’abbazia del delitto del Nome della Rosa, le popolazioni delle Terre di Mezzo, il castello di Moulinsart, i racconti alchemici che sottendono molte storie di Corto Maltese, l’universo della Spada di Ghiaccio, gli abiti dei membri della famiglia Tenenbaum. Il piacere deriva dal conoscere ogni svolta del labirinto, ogni stanza del castello, ogni scena del romanzo, ogni vignetta del racconto. A volte, quando è un po’ che non rientri in uno di questi romanzi mondo (o fumetto. o film…) sei talmente in rapporto con quell’universo che se qualcosa non torna ti risulta più semplice credere che sia l’opera ad essere cambiata, piuttosto che dubitare dei tuoi ricordi…
Infine ci sono quelli che gli americani chiamano i guilty pleasures, i piaceri colpevoli, quelle cose di cui ci si dovrebbe vergognare ma in realtà ci piacciono tantissimo. Hanno a che fare, secondo me, col piacere del rincretinimento, con lo sbragare e con l’essere serenamente imbecilli. Credo di non mancare di rispetto a nessuno se cito Franco e Ciccio o Monnezza, o il sublime la Cena dei Cretini. Forse in questo caso non ritrovi l’esperienza folgorante o il mondo arredato perfettamente, ma dei vecchi amici, con le loro manie e i loro tic. Il compagno di scuola scorreggione o quello che faceva le battute cretine, lo scemo del paese che dice sempre le stesse cose. In questi casi l’esperienza che vogliamo ritrovare è l’esperienza di una singola scena o un singolo gesto. Ma saremmo pronti a dare cento capolavori della storia del cinema per la canzoncina di Lino Banfi o per Zach Galifianakis che fa amicizia con una scimmietta. Non sono necessariamente situazioni comiche, ma sono momenti che rivedresti all’infinito attivando una strana condizione regressiva, come rivedere cento volte un accoltellamento di Halloween o rileggere periodicamente l’elenco dei nettaculo di Rabelais oppure l’incontro tra David Copperfield e il garzone del macellaio con i capelli unti con la “sugna magica” (tutti vizi di cui sono ovviamente colpevole).

A volte, in questa approssimativa classificazione, le cose possono cambiare di posto: Laurel & Hardy per anni stavano nella categoria “Amici Cretini” poi ti rendi conto che ti hanno folgorato con la loro genialtà; Shining era per me una “Folgorazione”, poi è diventato un “Mondo perfetto” nel quale rientrare di tanto in tanto. Paolo Villaggio era un “Amico Cretino” e ora mi rendo conto che con Fantozzi ha creato un “Mondo perfetto”. TinTin è stato un “Mondo Perfetto”, ma ora preferisco cercare la battuta scema del Capitano Haddock e quindi sta entrando nella categoria “Amici Cretini”. Alcuni libri, come Finzioni di Borges, Rayuela di Cortazar, la Vita istruzioni per l’uso di Perec, le Città invisibili di Calvino, Infinite Jest di David Foster Wallace, sono state “Folgorazioni”, poi ora sono a metà tra “Mondi Perfetti e “Amici Cretini” che dicono sempre le stesse cose ma che staresti per ore ad ascoltare. Tarantino crea “Mondi Perfetti” semplicemente riempiendo ogni scena di “Amici Cretini” presi in dialoghi strampalati.
Ora mi rendo conto che questa mia classificazione sembra essere più che altro un piccolo trattato sulle turbe mentali di uno studioso di estetica che ha letto Umberto Eco mentre accanto a lui un suonatore di banjo ritardato strimpellava una melodia degli Appalachi, per cui l’esperienza estetica può essere 1) folgorazione di un demente colto alla sprovvista 2) costruzione minuziosa di un nerd paranoico senza speranza 3) incontri periodici con amici cretini che si mettono le dita nel naso e fanno varie cose vergognose, ma questo mi è venuto da dire.


Star Wars e Super 8, il passato retrospettivo


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Che dire della recensione di Mastro Stout se non che tocca appieno i difetti del nuovo Star Wars: la disneyficazione della saga sembra andare verso un facile manicheismo per famiglie, buoni contro cattivi, e il ripensamento del nuovo Darth Vader rispetto ai dubbi davvero amletico-edipici del primo, sembrano più che altro gli scrupoli di un bravo ragazzo che sceglie una cattiva strada. Persino ne la Vendetta dei Sith i toni, per quanto meno mitologici della prima trilogia, sono ben più pesanti (vedi il massacro dei piccoli Jedi, non mostrato e quindi ancora più inquietante). Dopo che Kylo Ren infila Han Solo viene quasi da dargli una pacca sulla spalla per consolarlo…

La mia lettura, in linea piena con quanto dice il Mastro, sottolineava l’altro lato della saga per famiglie, cioè la saga per fighetti o hipster che dir si voglia. Storia conciliante e immagini leccatissime è l’unica formula che una certa hollywood sembra concedersi. Ci tengo a dire che il tono del mio pezzo, apprentemente sfavorevole al buon Lucas, voleva in fondo dire questo: sulla partita del “Mito” non c’è storia, con la prima trilogia Lucas ha fatto quello che forse nessun’altro ha poi replicato dopo di lui: creare un mondo, e quindi un mito, col suo contorno di riti e celebrazioni. Sulla partita del cinema forse Lucas ha mostrato una cosa prevedibile: è più grande come generatore di miti che come “regista puro”. Abrams, libero dal mito (perché forse ha dato tutto con Lost) si limita a creare un grande caleidoscopio visivo. Che può piacere (a me è piaciuto abbastanza) ma che se viene messo vicino alla vera fonte originaria della forza si riduce a gioco intorno a quella che è appunto la coolness. Mastro Stout mi ha ben sgamato su questo: è verissimo che il carisma del povero Kylo Ren è nullo se lo mettiamo vicino al mascherone nero originale. Uno è un mito e l’altro una riattualizzazione. Ma il senso del lavoro di Abrams mi sembra proprio questo: se al mito non si arriva, almeno creiamo delle immagini “perfette”, circondate da una specie di aura mitica artificiale, come capita con quegli artisti grafici che rivisitando l’estetica di Star Wars creano delle immagini stilisticamente più raffinate rispetto a quelle del film stesso. In questo il ragazzone Driver è il più carismatico: è un attore “vero” (mentre, mi perdonino i fan del patatone, Hayden Christensen era più che altro una specie di puro spazio vuoto in attesa di essere colmato dal male che tutti sapevamo sarebbe arrivato). Il primo Darth Vader faceva paura come un babau: una maschera, magari anche fatta non benissimo (vedi il primo film) ma che proprio per questo è davvero l’incarnazione del male. Due cose molto diverse.

In questi giorni ho continuato a fare qualche esplorazione in questo territorio. Per esempio mi son rivisto Super 8, per rispondere a una domanda che mi gira in testa da tempo: perché questo film, che in fin dei conti è piuttosto mal riuscito e a suo modo Disneyano, è riuscito a emozionarmi? Perchè, e parlo della prima parte, è una specie di condensato degli anni fine settanta/primi ottanta come non sono mai stati. Posso dire che io c’ero, e che degli anni 70-80 così perfetti non sono mai esistiti. Eppure sono resi da Abrams con una forma di eleganza retrospettiva che li rende commoventi. Un po’ come andare a una fiera in cui trovi proprio tutto, il cubo di Rubik (che non sono mai riuscito a risolvere), le magliette con gli accostamenti di colori impossibili, il mito spaziale dello shuttle, i poster di Halloween, i modellini da costruire, i mostri. Abrams ha creato un contesto così perfetto (e finto) da spingere a vederci anche le cose che non ci sono, per noi che non andavamo in una high school al ritmo di My Sharona: Zaccagnini al giornale radio, Heidi alla tv, Alfredino nel pozzo, Goldrake, Giochi senza Frontiere. In questo sta la sua bravura e il suo limite: è un grandissimo arredatore di interni narrativi e mentali, ma un creatore abbastanza limitato. Riempie spazi cinematografici di oggetti e immagini che rinviano a un passato mai davvero esistito offrendone una versione distillata e purificata (come Elle Fanning, specie di archetipo della ragazzina di cui non ci sarebbe potuti non innamorare alle scuole medie). Non corre il rischio di cercare di mostrarci qualcosa di nuovo e genera un perfetto passato retrospettivo (e qua dovrei ricollegarmi a quanto dice Duffo sulla ripetizione come strategia di brand, ma ci tornerò sopra in un altro articolo), con un’operazione che assomiglia a quella di certi pittori iperrealisti americani: la perfezione come una sorta di maschera mortuaria. La riproduzione che diventa allucinazione, il dettaglio ingrandito fino alla vertigine.

Nel commento a Super 8 viene fuori un ragazzino che faceva gli stessi filmetti poi messi in mano ai suoi protagonisti. Anche lui era un nerd, ma con una differenza. Buona parte dei tizi che poi hanno girato attorno a lui, dal produttore al direttore della fotografia, erano come lui degli appassionati di Super 8 e si sono conosciuti ai festival del settore. Questa forse è la differenza: Abrams era un nerd in un mondo che aveva riconosciuto il potenziale dei nerd, al punto da fare festival dedicati a loro. I primi nerd, quelli che davvero sono impazziti col primo Star Wars, si erano trovati in mondo che per la prima volta era il loro ma, per così dire, era un mondo ancora primordiale, non organizzato. I nerd e gli outsider non erano ancora diventati possibili target di mercato e non erano ancora stati riassorbiti dal sistema (provo ad azzardare mettendo un altro elemento, tutto da discutere: la creazione dell’outsider come target avviene in modo definitivo nei quindici anni che stanno tra il primo Star Wars e Smells Like a Teen Spirit dei Nirvana in rotazione su MTV, passando per i primi videogames casalinghi). Abrams in questo è uno spielberghiano, l’uomo di successo che occupa uno spazio che una volta era destinato a chi successo non poteva averlo. Lucas stava forse nel punto in cui qualcosa di davvero “eccentrico” poteva ancora essere possibile. Se guardo Coppola o Milius o il primo Lucas o Carpenter vedo degli outsdier che arrivano a Hollywood come un branco di maleducati che fanno casino. Se hanno successo è quasi loro malgrado. Se guardo Abrams vedo un outsider che fin da subito ha le idee ben chiare su come diventare mainstream. Con la nuova hollywood gli outsider hanno quasi scalzato il sistema, con Abrams il sistema si è allargato quel poco che bastava per accoglierli come potenziale galline dalle uova d’oro.

Ultimissima considerazione. Nel mio culto dei perdenti, la più bella evocazione degli anni ottanta alternativa a quella di Super 8 sta in una scena di The Wrestler: il vecchio lottatore ormai in rovina si ritrova in una tristissima saletta di municipio, al freddo, con altri vecchi lottatori disastrati, a firmare autografi e a vendere cimeli per un gruppo ridotto di nostalgici. Questo è un passato che nessuno racconta: vecchi vhs che forse non girano neanche più, pupazzetti invenduti, foto ingiallite, una polaroid con il flash usa e getta. Il contrario della perfezione retrospettiva, una specie di rumore di fondo, una nebbiolina che sfuma la percezione, un colore sgranato che rende il ricordo quello che è davvero: un bordo sfrangiato che scontorna le cose, come se ci fosse un difetto della messa a fuoco.


Star Wars, il risveglio della forza: nessuna rivincita per i Nerd


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La potenza e la debolezza del mito 

“La forza sia con te!” dice ovviamente alla fine il Generale Leia alla nuova quasi Jedi Rey, e sembra proprio un passaggio di consegne. Questo Star Wars. Il Risveglio della Forza è la liberazione della forza e del mito dalle mani di George Lucas: niente più necessità di essere filologici, ma il gusto di giocare con gli archetipi creati da quella poderosa macchina narrativa che è la saga di Guerre Stellari, fregandosene allegramente di tutte le incrostazioni che appesantivano in modo imbarazzante la seconda trilogia.

La genealogia è nota: un pezzo di space opera e un pezzo di western. Un po’ di Signore degli Anelli e una bella dose di Flash Gordon e Buck Rogers. E poi il genio di Lucas per dar vita a un nuovo immaginario generato attraverso la ricombinazione furiosa di elementi dei racconti di avventura classici. Solo che poi ci si dimentica che una delle novità reali di Guerre Stellari stava nell’invenzione di un nuovo modo di fare e produrre cinema.

La truppa new Hollywood di Scorsese, Spielberg e Coppola aveva bisogno di spazzare via una volta per tutte la bolsa macchina produttiva degli Studios. Se a livello di linguaggio lo aveva già fatto con film come Easy Rider, Bonnie & Clyde, Chinatown, Il Padrino, Taxi Driver e Lo squalo, doveva arrivare Lucas, quello che ai tempi della USC aveva fatto film astratti alla maniera dei registi di avanguardia newyorkesi e che aveva fatto flop con la geniale fantascienza distopica di THX 1138, per far saltare la macchina dall’interno. E quindi ecco qualcosa che non è solo una storia e non è solo un film, ma un nuovo modo di approcciare il cinema: come se Melies si prendesse la sua rivincita sui Lumiere. Fanculo il realismo e la psicologia, abbasso i melensi musical tipo Hello! Dolly, addio i polpettoni storici. Signore e signori, ritorna il cinema come visione e scoperta di mondi lontanissimi. La meraviglia contro la realtà, la saga contro la storia, il mito contro tutto il resto.

Solo che a Lucas, come è ovvio, il mito è sfuggito di mano. Aveva le visioni, ma non le immagini per dominarle. Intendo dire, a meno di essere dei nostaligici inguaribili, come non trovare ridicoli, con gli occhi del nostro tempo, il primo Darth Vader, con la tuta che sembra riciclata da qualche trovarobe, i mostriciattoli a bassa definizione, gli Ewoks, creature gadget targhettizzate sui bambini? Come non accorgersi che Hamill e Fisher erano troppo poco iconici per reggere il peso di tutto quel bagaglio mitologico? Lucas ha aperto un mondo e, come tutti gli scopritori di altre dimensioni, non poteva essere del tutto equipaggiato per esplorarlo. I limiti di Lucas testimoniano della grandezza della sua mitologia, ma rimangono comunque dei limiti.

La seconda trilogia, qualche decennio dopo, l’ha dimostrato. Chi poteva pensare che Liam Neeson potesse essere davvero all’altezza di tutto quello che sarebbe accaduto dopo? Anakyn è evidentemente frutto di un casting fatto da parte di qualcuno che non capiva dove stava andando il mondo. Nel tempo di Johnny Depp, di Brad Pitt e di Leo Di Caprio, Hayden Christensen aveva il carisma di una patata lessa. Nolan stava diventando Nolan e George Lucas tira fuori Jar Jar Blinks. Keanu Reeves stava esplorando il deserto del reale e la Matrice e Lucas va a girare nella Reggia di Caserta. Pulp Fiction, qualche anno prima, apriva la strada a una nuova generazione di voraci e smaliziati divoratori di miti. Gli hipster stavano arrivando, con un solo verbo: anche i frammenti culturali ed estetici più remoti, anche le sottoculture più riottose, anche gli outsider più impresentabili possono essere ripresi, purché tutto avvenga in modo stilisticamente perfetto.

Il trionfo della volontà Hipster

Se inseriamo l’opera di Lucas in un minimo di prospettiva storica vediamo subito un po’ di cose interessanti. I gusti sono soggettivi, ovviamente, ma se facciamo un confronto in termini di cinema popolare, Lo squalo di Spielberg, del 1975, mi sembra ancora oggi ben più appassionante (dal punto di vista della costruzione narrativa) del primo Star Wars (1977). Se parliamo di cinema fantascientifico, nello stesso giro di anni escono Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), il primo Alien (1979), ET e Blade Runner (1982). Quali film siano invecchiati meglio se li mettiamo vicini alla prima trilogia (1977-1983) non credo sia tema di discussione. Se poi prendiamo la seconda trilogia, ci dobbiamo mettere, nell’intervallo 1983-1999, Cameron da Terminator (1984 e 1991) a Titanic (1997), il primo Matrix (1999) e nel genere cyberpunk ci mettiamo anche Strange Days e Johnny Mnemonic, entrambi del 1995, meno memorabili ma comunque portatori di un immaginario alternativo a quello della sci-fi tradizionale. Poi ancora Spielberg, con Jurassic Park (1993) e il Soldato Ryan (1998, non è sci-fi ma è il culmine di un certo cinema classico); persino, se vogliamo, Star Trek The Next Generation (1987-1994) per non dire di quello che succede in Giappone con Akira (1988) e Ghost in The Shell (1995). Infine, se consideriamo La vendetta dei Sith (2005), e ci mettiamo vicino Minority Report (2002), la trilogia dell’Anello di Peter Jackson (2001-2003) e Lost (prima serie 2004) il confronto diventa addirittura cattivo. Però, questo elenco può essere visto in modo rovesciato: nessuno dei film citati, per quanto si parli in molti casi di capolavori assoluti, ha eguagliato la potenza mitologica e mitopoietica generata da Lucas (tolto forse Alien, a suo modo nuovo archetipo del mostro; nel caso di Jackson ovviamente la mitologia c’è, ma è di secondo grado).

Allora arriva JJ Abrams, non un grande regista, ma un grande spettatore. Uno che sicuramente i classici appena citati li ha visti e rivisti. Abrams non è un creatore di miti (anche se con Lost ci è andato vicino), ma sa fare benissimo due cose: sa vedere e sa vendere. Perciò riesce a portare a termine quello che Lucas, troppo impegnato a seguire le sue visioni d’infanzia per essere fino in fondo cool, non ha saputo realizzare: la perfezione visiva. Il deserto del nuovo episodio è un misto tra il primo Star Wars, Dune e Nausicaa, con un pizzico della sabbia alchemica di El Topo di Jodorowsky. Dopo l’inizio tutto sommato abbastanza tradizionale, con l’attacco delle postazioni “buone” che ricorda la brutalità operativa di certi film militari recenti tipo quelli di Katherine Bigelow, quando vediamo arrivare Rey, con la faccia avvolta in un drappo bianco e gli occhialoni antisabbia, iniziamo a capire qual è la chiave per entrare nel film. Abrams sa creare le immagini giuste. Icone pop e glamour, che con la loro semplice apparizione diventano indimenticabili. Il nuovo cattivo è un misto tra un guerriero black metal, con tanto di spadona laser-croce rovesciata, e una versione satanica dei Daft Punk. Adam Driver si impone per carisma su qualunque cattivo mai apparso in una delle saghe Stellari.

L’adunata dei cattivi in stile Norimberga è semplicemente fantastica, da Trionfo della volontà di Leni Riefenstahl, così come la raggelante distruzione dei pianeti con super raggi cosmici rossi che si riflettono per un attimo sulla maschera nera di Kylo Ren, è una sintesi di tutto il cinema apocalittico degli ultimi vent’anni, da Independence Day a Melancholia. Alcuni paesaggi sono scolpiti nel tempo, come in certe cose di Herzog oppure, più vicino a noi, i minacciosi pianeti incontrati in Interstellar. Lo scontro nella neve, superbo, sembra un miracoloso incrocio tra Kill Bill e l’Excalibur di Boorman. Gli interni della nuova Morte Nera gigante sono percorsi dalla luce livida dei migliori quadri di HR Giger. L’approdo al rifugio di Luke Skywalker è qualcosa che sta tra il Signore degli Anelli e la mitologia celtica. Perché questo è il passaggio fondamentale: Lucas attingeva certo alla hollywood classica, ma prendeva soprattutto dai racconti di fantascienza, dai fumetti e dalla propria immaginazione. Per creare una nuova mitologia, evocava le storie che lo avevano appassionato. Abrams, da buon manierista, evoca altri pezzi di cinema, non replica significati ma frammenti e svolazzi stilistici: i volteggi delle astronavi di 2001, le luci di Blade Runner, i mostriciattoli della taverna del primo Star Wars. Lucas andava in profondità per risalire con un nuovo immaginario, con tutte le limitazioni e le manie del genio. Abrams scivola in superficie, potendo pescare immagini che assimilano altre immagini, in un perfetto museo dello stile in movimento. Ha a disposizione tutta la storia del cinema e tutte le immagini degli ultimi cento anni, anche quelle che solo Lucas ha reso possibili. Mi pare il trionfo definitivo di quella che potremmo definire un’estetica hipster, tutto può essere citato purchè sia inserito in un frame perfetto, nessuna scheggia culturale è davvero eccentrica se viene ammantata dalla “coolness” estetica.

 

Hollywood non ama i nerd

In questa storia di tradimenti, recuperi e voltafaccia, non è un caso che il superamento di Lucas avvenga per mano del più Spielberghiano dei nuovi registi, dato che Spielberg, tra i ragazzi della Nuova Hollywood, si era subito distinto per la sua capacità di ricomporre il linguaggio classico dopo il delirio stilistico dei suoi ben più scriteriati compagni di viaggio: se il megalomane Coppola, il sovreccitato Scorsese, il macho Milius, il tormentato Schreder e l’ossessivo De Palma sono possibili solo nel decennio che li ha visti emergere, non sarebbe difficile immaginare uno Spielberg essere se stesso in qualsiasi momento della storia del cinema. Il nuovo Star Wars sembra seguire questa linea: personaggi iconici immersi in una storia appassionante, con contorno di immagini levigate e calibratissime, tutte in qualche modo legate a un effetto di deja-vu (ma dove diavolo ho già visto quella scena o quella luce o quel paesaggio): la rivincita degli Studios sulla Nuova Hollywood portata a termine con la stessa spada laser che per primo Lucas aveva utilizzato, vale a dire la potenza produttiva. Per un attimo gli incrociatori spaziali si stagliano sullo sfondo di quello che sarà per sempre il cielo rosso fuoco di Apocalypse Now.
La linea Spielberghiana, fatta di racconti rigorosi e di immagini misurate, indiscutibilmente superiore e dominante, si vendica sul ragazzo di Modesto che aveva osato inventare un mondo e reinventare il cinema. Le macchine di American Graffiti (un film fatto solo di dialoghi e di movimento) smettono di girare in tondo. Non c’è redenzione per gli outsider, al massimo adattamento al sistema (Abrams), autoparodia (Burton) o rapida trasformazione in icone di stile (Lena Dunham, la morosa di Adam Driver in Girls, che sarebbe stata la vera geniale interprete della nuova Leia-Luke, magari con il bikini dorato delle cortigiane di Jabba).

Non dimentichiamoci che nel codice genetico della saga rientrano tutta una serie di schegge culturali che, con una sintonia prodigiosa con la loro epoca, hanno decretato il successo di Star Wars: una certa consonanza con la cultura americana degli anni settanta, quella cultura pre e post adolescenziale nata dall’attenuarsi delle vibrazioni della summer of love degli anni sessanta. La cultura depressiva dei pomeriggi nelle periferie urbane, con gruppi di ragazzini che fumano canne in camera ascoltando The Dark Side of The Moon, con attorno la paranoia di Nixon, quella del dopo Manson e del dopo Altamont, dello Zodiac Killer e del Vietnam, dello skateboard e dei giochi di ruolo. Affacciandosi sul decennio del successo yuppie, Lucas crea il film iconico degli stonati californiani, tra venature Zen-Orientali, forze primordiali, ribelli spaziali, citazioni dai poster fantasy di Frank Frazetta da cameretta adolescenziale, immaginario rock, tra Zeppelin e Rush, poster pischedelici, culti dell’amore, musica cosmica e erba. Star Wars era anche la sintesi di tutto questo, un ultimo sussulto delle Good Vibrations, il trionfo di un sogno di cambiamento proprio quando ogni cambiamento stava diventando impossibile. È questa confluenza unica di visione di un individuo e di energia storica e sociale ad aver reso possibile una nuova mitologia: una mitologia da loser che per un attimo ha conquistato il mondo. Questa estetica nerd, in qualche modo non assimilabile dal semplice citazionismo postmoderno perché fondata su una forma di disagio sociale e personale (raccontata ad esempio da Charles Burns nel suo Black Hole), è stata soppiantata in modo definitivo dallo hipsterismo: il centro della citazione diventa il semplice segnale stilistico “ben fatto”.

Per qualche secondo ho immaginato che dopo la morte di Han Solo, necessaria e perfetta, il film potesse andare da qualche altra parte. Chewbacca si ferma per guardarsi attorno. Con la voce di William Holden nel Mucchio Selvaggio dice “Let’s Go”. Rey e Finn gli rispondono “Why Not!”. E Abrams fa partire a quel punto un ralenti da Peckinpah mentre il Re dei Wookie, stanco e ferito, e i suoi amici umani iniziano il loro attacco finale. Ma il vecchio Sam è morto da un pezzo e queste cose a Hollywood non si fanno più. Niente rivincita per i Nerd.


Dead Parrot’s “Thats ’70s” Christmas Compilation


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Lee Perry – Disco Devil (1977)
Althea and Donna – Uptown Top Ranking (1978)
Curtis Mayfield – Pusherman (1972, Superfly soundtrack)
Serge Gainsbourg – SS in Uruguay (1975)
Os Mutantes – Ave, Lúcifer (1970)
Sibylle Baier – Tonight (1973)
Alain Goraguer – Deshominisation (1973, La Planete Sauvage soundtrack)
Bruce Haack – Supernova (1970)
Pere Ubu – Non-alignment Pact (1978)
Robert Wyatt – Sea Song (1974)
Tangerine Dream – Betrayal (1977, Sorcerer soundtrack)
Ultravox – Hiroshima Mon Amour (1978)
La Düsseldorf – La Düsseldorf (1976)
Andrzej Korzynski – Rosa Rosa (1977)
Braen’s machine – Imphormal (1971)
Culpeper’s Orchard – Mountain Music Part 1 (1971)
XTC – Complicated Game (1979)


I Quiz del Dead Parrot: Cattivi!


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Credo ti sia capitato almeno una volta di parteggiare per un “cattivo” nell’ambito di qualche storia/saga. Fai un nome e dicci il perché della tua scelta di campo.

Mastro Stout A dire il vero, a me capita alquanto spesso, tranne forse nei videogiochi, ma solo perché in quel medium è davvero questione di “O lui, o me”, da duello western, insomma. Un nome su tutti? Darth Vader. Perchè? Perchè, semplicemente, è lui! ‘Nuff said, come dicono gli americani. Sarei il suo primo discepolo, cosa che del resto in parte è avvenuto, avendo in passato giocato alla saga videoludica “Star Wars: Il potere della Forza”.
alunno Proserpio Credo che il cattivo più affascinante sia Long John Silver dell’Isola del Tesoro. Il cuoco con una gamba sola, ex quartiermastro del Capitano Flint, pronto a capeggiare l’ammutinamento a bordo dell’Hispaniola, è un autentico bastardo, ma con la sua capacità di incantare con le parole e l’indubbio carisma risulta molto più simpatico di tutti i personaggi buoni del libro.
duffogrup Forse non riesco proprio a parteggiare per un villain, certo per diversi esponenti della categoria ho provato compassione per la loro triste condizione. Emblematico è il caso dell’androide Roy Batty/Rutger Heuer e il suo monologo finale sotto la pioggia, rimasto nella storia.

Parliamo di super criminali. Se dovessi rubare un super potere e un tratto distintivo da qualcuno degli innumerevoli villain dei comics USA (della serie: andare a rubare in casa dei ladri), di cosa ti approprieresti?

Mastro Stout Come super potere, direi l’abilità “fotografica” di Taskmaster, il più famoso trainer dell’universo Marvel, ossia il saper copiare precisamente qualsiasi tecnica di combattimento che il nostro vede in azione. Non lo dico per afflato di violenza fine a se stessa ma perché, come il character in questione, potrei poi aprire una scuola per creare ottimi lottatori, stile Tana delle Tigri, forse il (non-)luogo che maggiormente m’ha affascinato da piccolo. Quanto al tratto distintivo, dirò una banalità: l’enorme quantità di denaro di cui dispongono i grandi, vecchi villain delle Big Two, quali, tanto per fare un paio di esempi (e per par condicio), Dr. Doom e Ra’s al Ghul.
alunno Proserpio Per ottimizzare rispondo Sylar, il cattivo che nella prima serie di Heroes aveva il potere di rubare i superpoteri degli altri “eroi”.
duffogrup Al Loki cinematografico, che conosco più di quello fumettistico, invidio la divinità ma sicuremente ruberei altre caratteristiche: la capacità di manipolare gli altri a proprio piacimento, l’astuzia che spesso rischia di farlo vincere contro il fratello più forte ma stupido e la sfrontatezza di dire sempre la cosa adatta ad insultare sottilmente il suo interlocutore.

Ti è mai capitato di appassionarti a tal punto alle vicende personali di un cosiddetto villain, da arrivare a comprendere, in toto o almeno in buona parte, le sue motivazioni e i suoi progetti?

Mastro Stout Mi devo ripetere e (ri)cito la Testa del Demone, per il suo antico e mai sopito piano di riportare la Terra ai suoi antichi splendori, quando la Natura dominava nettamente sull’Uomo. Mutatis mutandis, è un concetto onnipresente nelle opere del buon Miyazaki Hayao. Certo, sui mezzi – la decimazione dell’umanità – tramite cui raggiungere un tale scopo ci sarebbe parecchio da discutere… Fossero almeno pronte le colonie spaziali!
alunno Proserpio Anche qua pesco (nel vero senso della parola) dalla letteratura marinaresca: il capitano Achab, con la sua folle ossessione per Moby Dick che condanna alla rovina il Pequod e i suoi marinai. Ma la furia prometeica che lo muove, il legame che lo porta ad identificarsi con la Balena Bianca, il suo chiamarsi fuori dal mondo dei mortali per inseguire la lotta contro il fato, i suoi monologhi biblici da predicatore infuocato ne fanno uno dei grandi personaggi romanzeschi di ogni tempo. Chiunque abbia il senso di una missione o di un’ossessione, chiunque si senta truffato dal destino, chiunque voglia riaggiustare la bilancia del fato, è un po’ un Achab in potenza.
duffogrup Direi che nella sua freddezza, nella sua spietatezza, nel suo essere assolutamente logico (fino a sembrare il parto di una mente vulcaniana), il piano che Ozymandias mette in pratica in Watchmen di Alan Moore può risultare spaventoso però, nella sua tragicità, è accettabile per una mente razionale soprattutto conoscendo quant’era la paura in quegli anni per un conflitto atomico. Solo Rorshach, la personificazione delle emozioni umane più profonde, reagisce veementemente contro questa macchinazione diabolica e salvifica allo stesso tempo. Da omuncolo non voglio condividerne la stessa fine, d’altronde che potrei fare se persino la divinità, Dottor Manatthan, nella sua inutile onnipotenza si schiera a favore di Mr. Veidt.

Ti svegli in piena post piomba dopo una nottata di bagordi e, ancora ubriaco, decidi di realizzare il tuo primo cosplay! Visto l’umore e il mal di testa, ti vestirai da… super cattivo! Quale sarà il tuo prescelto?

Mastro Stout Caro Duffo, anche rimembrando i nostri trascorsi di naja, direi Char Aznable, il celebre antieroe della saga di Kidō senshi Gundam 0079, il primo e più famoso di tutti i Gundam (e, senza dubbio, di tutti i cosiddetti Real Robot). La divisa sarebbe alquanto laboriosa da riprodurre e, considerata anche la pressa che sentirei al capo, la farei certamente realizzare a qualcuno/a. Vabbè, ho detto tutto ciò solo per citare uno dei personaggi di fantasia più tridimensionali, crossmediali e meglio sviluppati di tutti i tempi. Altro che il suo rivale, il piatto Peter Rei/Amuro Ray! Dalla parte di Char tutta la vita!.
alunno Proserpio Un sombrero e un gilettino coi lustrini, un paio di hamburger stracotti incollati alle guance per simulare le bruciature ed eccomi vestito da El Muerto, il memorabile cattivo sfigurato che quasi fece la pelle al buon Tex in un memorabile duello sulla Collina degli Stivali.
duffogrup Potendo metterei la suite degli Agenti di Matrix ma visto che, causa panzetta, finirei per somigliare più a Jake Blues che all’Agente Smith mi accontento dei vestiti larghi di Pennywise, trucco da clown compreso (e pure le zanne).

Tra le poche donne-villain di film, serie tv e fumetti di quale diverresti volentieri lo sgherro tuttofare?

Mastro Stout Mumble, mumble… non son poi così poche, specie nel mondo dei comics USA. Villain lo è stata agli inizi della sua carriera ma s’è “redenta” da tantissimi anni. Parlo della Regina Bianca del Club Infernale, Emma Grace Frost. Bionda, occhi azzurri, formosa,… gelida! ‘Nuff said.
alunno Proserpio Bisogna intendersi su quel tuttofare, ma direi che lavorare come assistente privato al servizio di Daryl Hannah, alias Elle Driver, alias California Mountain Snake, la killer con uno occhio solo nemica giurata di Uma Thurman in Kill Bill non sarebbe male. Dovrei imparare a fischiettare Twisted Nerve, affilare la katana e stirare la sua collezione di bende oculari, ma non sarebbe un sacrificio eccessivo.
duffogrup Direi la Mystica dei film di Brian Singer. Visto che pur tutta blu e squamosa avrebbe le forme di Jennifer Lawrence e/o Rebecca Romijn-Stamos e in più si potrebbe trasformare a piacimento (mio naturalmente) in qualunque altra bellezza terrestre e non, per farle da sgherro arriverei anche a lavare i piatti e tenere in ordine il nostro covo supersegreto.

Macchiavellici, superintelligenti e affascinanti. I cattivi più famosi di solito possiedono almeno una di queste caratteristiche ma ci sono anche tanti cattivi, stupidi, e particolarmente sfigati. Ne vuoi ricordare qualcuno?

Mastro Stout E’ vero, e il primo nome che mi sovviene è quello del povero Dick Dastardly, il villain protagonista della mitica serie d’animazione “Wacky Races” (chiamato anche, in alcuni adattamenti italiani – ma lo scopro solo ora – “il Bieco Barone”). Diciamocielo, un character che potrebbe benissimo impersonificare, viste le scorrettezze messe in atto e il carattere furbetto, il tipico italiano a cui, alla fine della fiera, si può volere anche del bene, specie in occasione dei siparietti con il terribile assistente Muttley. A livello di cattivi sfortunati, citerei un paio di character che, a mio avviso, sono stati poco e male sfruttati dagli sceneggiatori che li hanno curati (in questo senso, sono degli sfigati, non certo per le potenzialità che indubbiamente hanno): uno di papà DC, Lock-Up, comparso in una manciata di storie di Batman e di Robin, e uno di mamma Marvel, Spymaster, villain di Iron Man, all’epoca dei fumetti Corno tradotto come “Il Signore Spia” nel nostro idioma (che ricordi!).
alunno Proserpio In Fargo troviamo un grande cattivo-sfigato, il rapitore interpretato da Steve Buscemi, e un grande sfigato-cattivo, il mandante del rapimento della moglie, interpretato da William H. Macy. Il primo finisce in uno sminuzzatore di legna, il secondo finisce in galera. In generale in quasi tutti i film dei Cohen i cattivi sono parecchio più interessanti dei buoni.
duffogrup Naturalmente il trio Drombo di Yattaman e in generale tutti i cattivi delle serie comiche Time Bokan della Tatsunoko. Ogni puntata il vero spettacolo consisteva nell’entrata in scena dei deliranti robot progettati da Boyakki e destinati inesorabilmente ad essere distrutti da quei nippo-nazisti degli Yattaman. Indimenticabile poi, nella serie parallela Calendar Man il momento della redenzione del trio composto dalla Principessa Lunedì e i fedeli Settembre e Ottobre, di fronte alla probabile punizione del robot King Star. Commosso dal ravvedimento il gigantesco robot se ne va ma, causa la puntuale stupidità dei tre, si accorge di essere stato preso per il culo, per cui scaglia la sua freccia e distrugge il loro robot producendo l’immancabile fungo atomico a forma di teschio.

Ripariamo la maledizione del monologo del cattivo: se fossi tu il supercriminale quale eroe faresti fuori? e come?

Mastro Stout Andando a scavare fra i ricordi più profondi della mia infanzia da imberbe teledipendente, rimembro un episodio che casca a fagiuolo. Non ricordo il titolo dell’anime (forse il Toriton di Osamu Tezuka? n.d.duffo) ma era la sua ultima (o quasi) puntata. Il ragazzino protagonista del cartone, una specie di giovane Aquaman (c’entrava Atlantide o cmq qualche antico reame subacqueo), sconfigge definitivamente la sua nemesi, un ibrido tra uomo e squalo. Non ricordo minimamente le modalità della tenzone ma, in onore di quel piccolo Io deluso e rattristato per la morte di uno dei suoi villain preferiti (nel vedermi rabbuiato, ricordo mia madre che, impietosa, sentenziò: “Era cattivo”), riscriverei volentieri il finale di quella puntata, tiè!
alunno Proserpio Mi travestirei da Rosa Klebb, intepretata dalla grandissima Lotte Lenya, che tra l’altro era la moglie di Bertolt Brecht oltre che una mitica cantante negli anni della repubblica di Weimar, per dare quel che si merita a James Bond in From Russia With Love. Sarebbe sufficiente avere la lama che esce dalla punta della scarpa con qualche centimetro di lunghezza supplementare per affettare la risorsa più preziosa del celebre agente segreto.
duffogrup Steven Seagal, o meglio ognuno dei suoi personaggi. Datemi un’arma, qualsiasi tipo d’arma. Armi da fuoco, armi bianche. Una forchetta, un cucchiaino. Quell’uomo merita una fine atroce. Soffocato da calzini putridi. Trascinato da un dragster. Schiacciato da un branco di trichechi. Altro che scansare le pallottole e andare in giro con la faccia da tamarro a fare il duro, se potessi gli sturerei la testa con un putipù.

I tre cattivi con le facce più memorabili?

Mastro Stout Darth Vader (ma è un cattivo?), con e senza casco. Frà, ora non dirmi che questa frase vale 2 risposte 😛 Se sarai irremovibile su ciò, cambio risposta e ti sparo veloce celoce un trio indimenticabile: Grossa Tigre, Tigre Nera e Re delle Tigri di Tora no Ana ossia Tana delle Tigri! Se cito anche il big boss, Grande Tigre, so che incorrerò in una squalifica, indi mi astengo.
alunno Proserpio Sembra una domanda per rispondere subito che al primo posto c’è il caro Leatheface (Texas Chainsaw Massacre). In realtà non sappiamo nemmeno bene che faccia abbia, visto che ama indossare le sua caratteristica maschera fatta di pezzi di pelle umana. Comunque se vedete una specie di gigante vestito con abiti laceri che vi corre incontro con fare minaccioso ed emettendo versi inarticolati, vi conviene allontanarvi, specie se tiene in pugno una motosega.
Per affinità con Leatherface, cito l’amabile Capitan Spaulding, interpretato da Sid Haig nei due film capolavoro dell’Horror degli anni zero, La casa dai Mille Corpi e Devil’s Rejects di Rob Zombie. Il capitano ha una specie di museo nel deserto, nel quale ospita un’esibizione dedicata a mostri, serial killer, freak e creature dannate di ogni genere. In questa mostra permanente di mostruosità, che assomiglia a una wunderkammer white trash mescolata a una casa del terrore da luna park, lo stesso Capitano sarebbe degno di figurare come reperto: pelato, faccia butterata, denti orribilmente gialli e marci, una barbaccia da caprone sudicia, tutto contribuisce a fare di lui uno dei più simpatici e ributtanti villain degli ultimi anni (oltre che un autentico concentrato dell’orrore americano, una specie di archetipo nero, metà Charles Manson, metà colonnello Sanders del Kentucky Fried Chicken). Ah, dimenticavo la cosa più importante, con il suo make-up da clown risulta perfetto per resare nella memoria degli appassionati di pagliacci assassini.
Terzo il Mystery Man, interpretato da Robert “Baretta” Blake in Strade perdute di Lynch. La faccia imbiancata, le sopracciglia rasate e un semplice telefono celluare per una delle scene più inquietanti della storia del cinema.
duffogrup Il Joker di Heath Ledger del Ritorno del Cavaliere Oscuro. Dovrebbe essere un clown, ma in realtà quel trucco sembra più un impiastro bianco chimico attaccato alla faccia che richiama il Killing Joke di Moore, gli occhi neri che ricordano una mascherina ma anche gli occhi di qualcuno che sta male. Il rosso della bocca che continua come sangue sulle cicatrici che gli allargano il sorriso. E poi quella lingua sempre in movimento. Il villain cinematografico più riuscito degli anni 2000.
Il fantasma del palcoscenico di Brian de Palma. Ricordo che da bambino ho intravisto questo film e devo dire che il personaggio del Fantasma era assai terrificante. Vestito in una tuta nera col mantello, con in testa un casco argentato a forma di testa di falco in cui si intravedono degli occhi pazzoidi, una bocca coi denti di metallo e le labbra truccate con un rossetto nero, si esibisce in virtuosismi all’organo. Una visione angosciante ma, come succede spesso coi ricordi, sbagliata. Il povero fantasma altro non era se non la vittima del vero mostro: il produttore discografico Paul Williams che, diciamola tutta, per risultare pauroso non necessitava di trucchi.
Arnold Scwarzenegger nel 1984, che in poche inquadrature ridicolizza il lavoro dell’intera squadra degli effeti speciali di Terminator quando per rendere credibile il fatto che egli sia una spietata macchina cibernetica programmata per far fuori tutte le Sarah Connors di questo mondo gli basta indossare un paio di occhiali da sole.

Qual’è un oggetto dotato di poteri maligni che varrebbe la pena di far arrivare ai posteri? (Vale sia come oggetto dotato di poteri negativi, cosa inanimata che acquista vita-poteri-forza o oggetto che pur non avendo nessuna caratteristica particolare risulta in qualche modo “cattivo”).

Mastro Stout Cito l’oggetto che, fin da bambino, mi affascina di più nell’Universo Marvel: il cubo cosmico! Praticamente, realizza qualsiasi cosa uno voglia, dimensioni alternative incluse. Rivolgersi al Teschio Rosso (e al Seminatore di Odio) per maggiori informazioni.
alunno Proserpio “Oh god! Oh Jesus Christ!” grida il Sergente Howie, ormai nelle mani di un gruppo di pagani multicolori, capitanati dal memorabile Lord Summerisle, alias Christopher Lee vestito da donna. Cosa ha visto? Un fantoccio di vimini costruito su una scogliera. Ma perché si preoccupa tanto, dopotutto non vorranno mica chiuderlo proprio lì dentro? Mai andare sulle Ebridi a cercare bambine scomparse se non si è pronti a rimetterci la pelle.
duffogrup Il malvagissimo bambolotto meccanico che spunta fuori all’improvviso in Profondo Rosso e che spaventa il povero malcapitato Glauco Mauri, giusto il tempo di distrarlo in modo che il killer possa prenderlo e sbatterlo sulla mensola, spaccargli i denti e infilzarlo con un punteruolo. Il tutto mentre il povero pupazzotto con lo sguardo demoniaco se ne sta a terra tutto rotto a muoversi come avesse le convulsioni.

Le tre frasi memorabili pronunciate da un cattivo.

Mastro StoutL’Imperatore non è indulgente quanto me” (Darth Vader); “Tu non sei il tuo misero piccolo portafogli” (dal libro “Fight Club”; non mi ricordo però se lo dice il protagonista o il suo “lato Pitt”); dulcis in fundo, l’intero monologo del Gen. Nathan R. Jessep di “A Few Good Man” (“Codice d’onore”), interpretato magistralmente dal mefistofelico Jack Nicholson.
alunno ProserpioSqueal like a pig” detto da uno dei redneck al povero Ned Beatty in Quel tranquillo week end di paura. Agghiacciante, per quello che succede dopo…
Grillo Grifi: “Nessuno mi ha seguito tranne un nano di nome Topolino
Gambadilegno: “Ah! Un Nano! Un nano! E non capisci, cervello di gallina, perché Topolino ti ha seguito fin qui?…Egli lavora per la polizia segreta!” Leggendario scambio di battute tra Gamba e il suo complice in Topolino agente della polizia segreta di Floyd Gottfredson.
“…” Michael Myers che non dice niente per tutta la durata di Halloween di John Carpenter.
duffogrupWendy? Sono a casa amore!” Come non accogliere a braccia aperte uno come Jack Nicholson in Shining?
Il mondo è mio!!” La frase che mi tormenta da quando ho 5 anni e la pronuncia il Dottor Zero l’oscuro quattocchi arcinemico di Fantaman.
Io sono Tetsuo!” tamburi, coro, titoli, fine…


Tre forme di atmosfera: Helm, Teho Teardo e Jeff Bridges


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In ascolto in questo periodo alcuni dischi d’atmosfera, ma ovviamente scordatevi le cenette a lume di candela o le musiche da piano bar. Helm, Olympic Mess, uscito già da un po’ di mesi, è la conferma del talento dell’inglese: solito gusto per suoni organici ripresi qua e là, elettronica ambientale, sempre che l’ambient lo si intenda fatto di ronzii, droni, aperture post industriali e brevi loop oleosi che danno struttura ed evitano che il tutto vada in territori troppo astratti. Rumorini che si dissolvono prima di prendere forma, tessiture avvolgenti da chill-out inquietante, venature fantamastiche che mi fanno pensare a certe cose hauntologiche di Mordant Music, percussioni attutite, con titoli come “I exist in a Fog”, “Outerzone 2015” e “Often Destroyed”. Musica dub-cosmica da periferie urbane, con venature metalliche e disturbi soavi, non a caso dedicata al fallout della Londra post olimpica.

Eppure, nonostante tutto, Helm mantiene una specie di vibrazione positiva, un’euforia nella manipolazione del suono, che fa pensare come sotto le bolle di gasolio e nelle pozzanghere ci siano forme di vita che un po’ alla volta si compongono e iniziano a organizzarsi. Mi fa venire in mente quegli spazi di confine, tra città e campagna, nei quali la natura riguadagna faticosamente, e in modo inatteso, il suo dominio sugli scarti delle città. In un libro bellissimo, Paul Farley e Michael Symmons Roberts chiamano questi spazi, tra parcheggi, concessionari, cantieri dismessi, proliferazioni di erbe e ritorno di animali che non si più trovano da nessuna parte Edgelands, margini che non sono urbani né agricoli, ma che possiedono una loro strana identità riconoscibile. Visto a suo tempo al Codalunga, in mezzo a un numero ridottissimo di avventori, l’allampanato e pallido Luke Younger/Helm è uno dei nomi più interessanti della scena elettronica mondiale.

L’altro disco è il nuovo di Teho Teardo, ormai confermatissimo maestro di cerimonie e atmosfere, appunto, che fa uscire Le Retour à la Raison, la sua sonorizzazione della mostra di Man Ray tenuta qualche mese fa a Villa Manin. Siccome Man Ray è Man Ray, Teardo si diverte con spiazzamenti e apparizioni improvvise, aperture d’archi dentro ripetizioni minacciose, percussioni metalliche che sembrano chiamare all’adunata le caprette di Heidi nella Parigi degli anni venti, sfrigolii da frittura di circuiti elettrici, svolazzi celesti che si parlano con rumori di fondo, solennità da cattedrale e frammenti da colonna sonora immaginaria (la malinconica “Rrose Sèlavy” mi fa pensare al Delerue del Disprezzo di Godard). Se ormai non sembrasse una brutta parola, direi che è un disco di post rock da camera, all’altezza delle ultime prove (penso al formidabile disco con Blixa Bargeld o allo splendido Music for Wilder Mann) di quello che, con una formula fuori moda, si può chiamare uno dei nostri migliori musicisti. Che sembra un modo per dire che è bravo, si impegna ma non riesce. Invece è bravo, non so se si impegna e accostando cose che sembrano impossibili da far stare assieme riesce ad evocare visioni stravaganti, una specie di mercato delle pulci del novecento, pieno di oggetti trovati per caso e riusati in modo soprendente, come si addice al tema. Tra i pezzi migliori, la solenne e schizofrenica title track, il sublime da vertigine, tra archi e chitarra, di “Danger, Danger, Danger”, l’incedere ossessivo di “Synonyme de Joie, Jouer, Jouir”.

Se invece volete le atmosfere, quelle vere, quelle sognanti, ricorrete pure a dosi massicce di una una chicca assoluta. Gli Sleeping tapes di Jeff Bridges, che sono proprio quello che vi dice il titolo: musica per dormire col vocione di Jeff che invita al sonno in mezzo ad ampie coperte elettroniche, che stanno sullo sfondo per non toglierci il piacere di avere il grande Lebowsky che ci sussurra paroline dolci. Spicca su tutto il pezzo sullo “Humming” in cui Jeff mormora (non so se il termine è quello giusto, diciamo che emette una melodia improvvisata facendo “mmm-mmm” a bocca chiusa) una specie di litania dal magico potere calmante. Un disco che mette di buon umore (nasce tra l’altro da un’iniziativa di beneficienza), richiama certe sperimentazioni elettroniche americane alla Raymond Scott, e che effettivamente, se ascoltato in cuffia, riesce a emettere vibrazioni positive. Sul sito dreamingwithjeff.com potete acquistare la musica e gustarvi la fantastica grafica da visioni notturne emerse in una comune californiana degli anni settanta. La musica che probabilmente i guerrieri mentali dell’Uomo che guardava la capre si canticchiavano in testa al momento di addormentarsi.


I Quiz del Dead Parrot: Cinema!


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Una scena “de paura” che ti ha fatto davvero paura.

Mastro Stout Da discreto appassionato di cinema horror, opterei per una scena che di horror, apparentemente, ha poco ma in cui la tensione si taglia davvero con il coltello ossia il momento in cui la protagonista di quel piccolo capolavoro che è The Descent realizza che la sua vittoriosa fuga dai mostri del sottosuolo era solo un sogno ad occhi aperti. La realtà, quella sì, è decisamente tragica e senza via d’uscita. Devo anche dire che la camminata stile ragno della protagonista de L’esorcista mi colpisce sempre.
alunno Proserpio La scena finale di Don’t look now (Venezia Rosso Shocking). Donald Sutherland segue un cappuccetto rosso tra calli e campielli in una spettrale Venezia notturna. Sarà la figlioletta redidiva? Oppure no. La prima volta ho visto la scena ero, come spesso mi capita dopo le otto di sera, in dormiveglia e mi è venuta una mezza crisi di panico. Un solo nome: Adelina Poerio. Chi ha visto il film non se la dimentica… Ma anche le apparizioni dei bambinetti in Brood La covata malefica di Cronemberg mi sono sempre rimaste impresse. Con le loro giacchettine a vento anni settanta, la faccia rugosa e i capelli biondicci sono assolutamente spaventosi.
duffogrup Lino Capolicchio fugge. E’ ferito e sconvolto da quello che ha appena visto. Riesce a trovare rifugio in una sagrestia dove un prete dallo spiccato accento emiliano gli dà asilo da due anziane sorelle pazze e assassine. La scena è l’epilogo del film La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati. Un crescendo di terrore che culmina con la visione di una schifosissima tetta cadente che spunta da sotto una tonaca, una risata isterica che fa accapponare la pelle e la faccia terrificata del povero Capolicchio. Uno dei migliori horror degli anni ’70, fatto di personaggi circensi e atmosfere padane.

Quale battuta ruberesti a un film per farti bello in una situazione difficile?

Mastro Stout Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto (da Per un pugno di dollari di Sergio Leone).
alunno Proserpio Ovviamente Sono nato pronto! detto da Kurt Russell in Grosso Guaio a Chinatown, la commedia action di John Carpenter, vista al cinema a 14 anni… Una battuta che può andar bene per ogni situazione, sia per un rendez vous romantico che per saltare la fila in posta o sostenere un colloquio di assunzione. Anche se tutto il dialogo all’inizio delle Iene, quello su Like a Virgin di Madonna, andrebbe citato per ridar vita ad ogni occasione sociale noiosa.
duffogrup Oggi hanno chiesto a te di far fuori Joe, domani chiederanno a me di far fuori te. Se questo sta bene a te, a me non sta bene. Poi proprio come Noodles in C’era una volta in america darei gas alla mia Grande Punto percorrendo con Mastro Stout, l’alunno Proserpio e platipuszen, tutto il molo Audace tuffandomi nel golfo di Trieste.

Tre canzoni (o musiche) memorabili legate a tre scene della storia del cinema? Valgono sia pezzi da cantare che da fischiettare o da ballare.

Mastro Stout I primi secondi di Battle Without Honor or Humanity di Hotei Tomoyasu, music theme dell’entrata in scena della Banda degli 88 Folli di Kill Bill Vol. 1 (scena vista e rivista non so quante volte).
Da The Doors di Oliver Stone, Jim Morrison che se ne fregò (o si dimenticò o… chi lo sa) di quanto richiesto dal conduttore e sparò un sonoro “Girl, we couldn’t get much HIGHER!” cantando live al programma tv Ed Sullivan Show, il 17 settembre 1967, la celebre Light My Fire.
Moving On (The End), scelto tra i vari temi musicali di Lost. A risentirlo, già mi scende una lacrimuccia… È vero, fa parte dell’OST di una serie televisiva ma Lost è molto più che cinema!
alunno Proserpio Troppo facile pescare da Tarantino, che ha fatto del rapporto canzone immagine un’arte, allora vado su cose più particolari, Keith Carradine che canta I’m Easy in Nashville di Robert Altman. Tre donne, ognuna convinta che la canzone intonata dal fascinoso barbuto country, sia dedicata a lei. Ma solo una è davvero quella giusta. Tutta una storia raccontata in un paio di minuti, tutto il genio di Altman in una scena sola. Porque te vas ballata da Ana Torrent, forse la più incredibile attrice bambina, in Cria Cuervos, dramma psicologico di Carlos Saura. La magia e l’inquietudine dell’infanzia nella Spagna degli anni settanta. E poi The End dei Doors con il napalm che cade sulla jungla nel memorabile inizio di Apocalypse Now, mentre Charlie Sheen suda allucinato nella sua stanza. Saigon, shit!
duffogrup Siccome sono un precisino io rispondo alla lettera.
Da cantare: lo stornello che il gestore del ristorante “Da Sergio e Bruno gli incivili” dedica a Lino Banfi, commissario di polizia, in Fracchia la belva umana e che lo stesso Banfi chiude magistralmente. Da fischiettare: doverosamente cito il maestro Morricone (campione del fischio cinematografico) tornando a C’era una volta in America per la scena che inizia coi 5 ragazzi vestiti di nuovo e finisce con Noodles arrestato, il piccolo Dominic fatto secco da una pistolettata alla schiena e l’arcinemico Bugsy sbudellato. Da ballare: Ray Charles che suona una tastiera scarcagnata nel suo negozio di strumenti musicali a Chicago, accompagnato dai Blues Brothers e dando il via ad una travolgente versione di Shake A Tail Feather solo per il gusto di far vedere a Jake ed Elwood che quel piano valeva i 2.000 dollari del prezzo.

Hai finito le droghe, il vino e la birra sono stati già tracannati e pure lo sciamano che sta vicino a casa tua non si fa trovare. Quale film potrebbe essere una buona alternativa a un trip chimico?

Mastro Stout ‘Azz, che razza di situazione complicata! 😉 Tanti anni fa avrei probabilmente detto Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni ma ne ho un ricordo piuttosto vago. Cito quindi, per il suo finale da Armageddon (pur calmissimo dopo decine e decine di minuti di pure mattanza), The End of Evangelion, il film che chiude(va) la saga di Hideaki Anno.
alunno Proserpio Scelgo Stati di Allucinazione, il film sugli stati alterati di coscienza di Ken Russell. Willam Hurt che sperimenta regressioni filogenetiche in una vasca di deprivazione sensoriale, diventando un mezzo scimmione. Tra l’altro è il film che ha ispirato sicuramente Fringe, e c’è anche Blair Brown, che da giovane era effettivamente da alterazione della coscienza.
duffogrup Senza dubbio Tetsuo di Shinya Tsukamoto. Sebbene ispirato da un’opera dalla struttura sostanzialmente classica come Akira di Otomo, Tetsuo va oltre. Un bianco e nero sporco, inquadrature disturbanti, riprese frenetiche e musica pesante e pestatissima. Altro che trip, Tetsuo è la versione pazzoide e metal de La metamorfosi di Kafka, con in più la leggendaria trivella fallica.

Visto che hai deciso di rifarti il guardaroba, vai dal tuo sarto di fiducia con la foto del personaggio di un film . Tiri fuori la foto, la passi al sarto e gli dici “Ecco, voglio un vestito proprio così!” Chi è il personaggio?

Mastro Stout Dico Johnny Mo, capo della succitata Banda degli 88 Folli. Katana e maschera incluse, ovviamente!
alunno Proserpio La prima risposta potrebbe portarmi dalle parti di Wes Anderson, dato che i suoi sono personaggi dagli abiti più curati degli ultimi anni, ma bisogna avere il fisico di Adrien Brody o la faccia di Owen Wilson per non essere ridicoli con le giacchette andersoniane. Allora vado sull’eleganza degli anni quaranta impeccabilmente ricostruiti da Roman Polanski in Chinatown: Jack Nicholson come private eye dal look perfetto, tutto giacche a spalle larghe, dominanza di tinte beige, righine scure, borsalino, anch’esso beige, occhiali da sole con la montatura tonda d’osso. E soprattutto cerottone sul naso tagliato.
duffogrup Visto che gioco a baseball da una vita dovrei scegliere l’outfit delle Baseball Furies de I Guerrieri della Notte, la gang che se ne va ingiro vestiti con la divisa dei New York yankees, il viso dipinto e le mazze di legno. Invece scelgo l’uniforme degli Hi-Hats, un’altra gang dello stesso film, contraddistinta da maglioncino rosso con maniche a righe, pantaloni neri, bretelle, una tuba e la faccia truccata da mimo. Certo sarei un po’ ridicolo, ma sempre meglio di quelli che per Halloween scelgono di vestirsi come quegli sfigati degli Orfani.

A quale attrice daresti volentieri l’accesso al mondo dei tuoi sogni erotici?

Mastro Stout No, dai, solo una non è giusto! Acc, sforzandomi di stare in questo ristrettissimo numero, indico colei che dal tempo delle mie mele (insomma, dalle superiori) definisce il mio ideale di donna-barbie: Katherine Kelly Lang, protagonista non solo di The Bold & The Beautiful ma, soprattutto, di quella chicca trash che è Esperimento letale.
alunno Proserpio Beh, dipende da molte cose. Se dico Liv Tyler in Io ballo da sola passo per malatone. Dominique Sanda in Novecento era effettivamente troppo stronza (tra l’altro, mettendoci vicino anche Eva Green, Bertolucci è in assoluto il regista con il maggiore occhio per la bellezza femminile). Alla fine scelgo Diane Keaton al tempo di Io e Annie, anche se sarebbero sogni erotici un po’ troppo newyorkesi, tra il nevrotico e l’intellettuale, a parlare dei libri di McLuhan col rischio di veder comparire anche il buon Woody…
duffogrup Una? Da sempre sono un sostenitore del concetto di harem per cui non posso citarne una sola e fare torto a tutte le altre, comunque sono disposto a piegarmi all’imperio della regola scegliendo fra tre categorie. Un’attrice italiana: Gloria Guida, una bellezza inusuale, quasi scandinava, per i canoni italici ma soprattutto per me l’eterna liceale nella classe dei ripetenti. Un’attrice straniera: Scarlett Johansson nella versione Vedova Nera, letale. Un personaggio: la milf per antonomasia, Mrs Robinson de Il laureato interpretata da Ann Bancroft.

Forse non te ne sei accorto, ma sei morto… per fortuna puoi sceglierti un vicino (o una vicina) di nuvoletta andando a pescare tra i numerosi defunti della storia del cinema. Chi scegli e qual’è il motivo della tua scelta? E di cosa parlate?

Mastro Stout Quando ho letto la domanda, mi sono fermato a “sei morto… per fortuna”. Sarebbe stata una gran sentenza! 😀 Non è certo stato un attore tout-court ma, in un certo senso, considerate le sue performance live e il fatto di esser stato protagonista di diversi videoclip e documentari, in parte sì. Parlo di James Douglas Morrison, il Re Lucertola. Personalmente, una delle figure più importanti dello scorso secolo, con cui sicuramente intavolerei discorsi di argomento storico e filosofico e, soprattutto, con cui discernerei di piombe memorabili.
alunno Proserpio La prima risposta sarebbe Philip Seymour Hoffmann per dirgli quanto è stato coglione… Poi vado sicuramente a farmi quattro risate e a mangiarmi un piatto di tagliatelle con Carlo Pisacane, alias Capannelle, purché sia in tenuta alla zuava come nei Soliti Ignoti.
duffogrup Chiederei a chi di dovere di mettermi vicino ad Orson Welles non tanto per parlare dei film che ha diretto o interpretato, oppure della mitica performance radiofonica che sconvolse mezza America. Quello che veramente vorrei chiedere all’infernale Quinlan è che cosa ci sia ancora dentro a quel benedetto baule che una volta gli apparteneva e che, arrivato qualche anno fa in modo rocambolesco in quel di Pordenone, ultimamente ci sta restituendo intere pellicole di suoi film che un tempo si ritenevano perduti per sempre, con la medesima magia della borsa senza fondo di Mary Poppins e con la stessa precisione di un registratore di cassa.

Sei Sergio Leone e stai per girare il famoso Triello del Buono il Brutto e il Cattivo: quali eroi cinematografici vorresti vedere sparacchiarsi a vicenda?

Mastro Stout Visto il numero esorbitante dei cinefumetti lanciati in questi anni, i sogni che da bambino avevo sull’ammirare un giorno sul grande schermo gli scontri presenti negli albi si sono praticamente tutti avverati. Ma visto che mi si chiede di vestire i panni di quel sant’uomo di Sergio Leone resterei in ambito di eroi nostrani. Assisterei quindi, più che volentieri, ad un duello all’ultima cartuccia tra il Tex di Giuliano Gemma e un qualsiasi pistolero interpretato da Clint Eastwood. Con balla di fieno rotolante e contorno di massi di cartapesta, ovviamente!
alunno Proserpio A un angolo metto il Samuel L. Jackson di Pulp Fiction, armato di Star Modello B 9mm, cattivissimo, vestito di nero, con i suoi orribili ricci impomatati. All’angolo opposto a Jon Voight con arco e frecce e cappellino da pesca, uscito dal Tranquillo Week End di Paura. A fare da terzo Bill “The Butcher” Cutting interpretato da Daniel Day Lewis in Gangs ot New York, col suo fido coltellaccio, cilindro e baffoni d’ordinanza. Samuel è avvantaggiato dal punto di vista tecnologico, ma prima di sparare deve fare tutto il suo monologo tratto da Ezechiele, The Butcher è veloce e cattivo, ma un po’ troppo teatrale, Voight fa fatica a tenere in mano l’arco, ma ha dalla sua la paura e l’istinto di sopravvivenza. Chi vincerà?
duffogrup Ricalcando un po’ la psicologia dei personaggi leoniani farei fare il ruolo del Biondo a Kaneda di Akira, che arriva sul campo di battaglia con il fucile laser e in sella della sua fantastica “moto per soli geni”. Jake “Joliet” Blues (aka John Belushi) sarebbe un ottimo Tuco, che tanto lui nel triello non spara, mentre per il ruolo di Sentenza ci metto Joubert, il killer a contratto de I tre giorni del Condor interpretato da Max Von Sydow, affinché riceva la giusta punizione che ha evitato alla fine del film di Pollack.


I Quiz del Dead Parrot: Serie TV!


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Tra le serie tv del passato nominane tre: una che ricordi ancora con piacere, una che non hai mai sopportato e una su cui il tuo giudizio, riguardandola a distanza di tempo, è cambiato drasticamente?

Mastro Stout La serie originale di Star Trek. Mi faceva davvero sognare, specie nella intro di ogni avventura, quei primi minuti di narrazione a cavallo della sigla iniziale. Tuttavia, a pari merito, devo citare “Dallas”, serie che avevo iniziato a seguire grazie a una nonna. Anche questo serial mi faceva sognare a occhi aperti ma, sinceramente, per tutte altre cose! Ah, i ricchi e felici anni ’80… è davvero passato un secolo!
Love Boat. Sicuramente ero troppo piccolo all’epoca per comprenderla appieno e seguire le vicende narrate ma davvero, fin dalla sigla, mi irritava. In un aggettivo: noiosa.
Più che serie con attori in carne e ossa, citerei diversi anime, in particolare di robottoni. Ma, ovviamente, il discorso va contestualizzato, van considerati i mezzi tecnici con cui erano realizzati, il fatto che allora ero un bambino/ragazzino, ecc. Se proprio dovessi nominare una serie tv “live action”, potrei dire Twin Peaks. Diversi anni fa venne riproposto sul piccolo schermo e fu un flop. All’epoca della prima messa in onda l’avevo apprezzata molto ma ammetto che quando iniziai a rivederla la magia era come svanita. Temo sia invecchiata male, non so se per ritmi narrativi oppure perché certe atmosfere e cliché plasmati da Lynch sono poi stati copiati e riproposti (spesso male) un numero indefinito di volte in tantissime altre serie.
alunno Proserpio Ce ne sarebbero tante, da ricordare, anche perché la generazione della prima metà anni settanta è cresciuta a suon di serie, da quelle pomeridiane a quelle, mi pare, delle 19.00-19.30. Come dimenticare la Ford Gran Torino rossa e bianca di Starsky e Hutch, il pappagallo di Baretta, le prime serie della Casa nella prateria… E più tardi A-team, con la più straordinaria sproporzione tra colpi sparati e colpi andati a segno… e Richie, Fonzie & co. e zio Zeb della Conquista del west, con la giacca di pelle a frange che non si cambiava mai… Ma basta scherzare, Duffo sa giá la risposta. Un perfido robivecchi di Watts, il suo figlio baffuto, un camion rosso scassato, zia Esther, un funkettone di Quincy Jones come sigla. Finte crisi cardiache, “Elizabeth sto arrivando…!!!” Sanford and Son
Poi vado in sintesi. Orazio di Maurizio Costanzo, una delle massime vergogne catodiche italiane.
Probabilmente Lost, mi sembrava geniale poi con il tempi l’ho ridimensionata. Però la prima volta che la vedi è un gran viaggio…
duffogrup Tra le tantissime serie che da teledipendente ho seguito nel corso degli anni quella che sicuramente devo mettere sul mio altare personale è X-Files. Seguire le avventure di Mulder e Scully, archetipi di tanti e tanti personaggi venuti negli anni a seguire, era un obbligo della domenica sera. Perdere una puntata voleva dire perdere il filo di una continuity avvincente. Una sensazione che non avevo mai provato prima: per la prima volta avvertivo veramente l’attesa settimanale per la messa in onda. Una serie che detestai quasi da subito fu invece The West Wing. La serie che narra le vicende alla Casa Bianca di un presidente democratico interpretato da Martin Sheen, creata dal “guru” Aaron Sorkin. The West Wing, fece gridare al miracolo quando uscì perchè effettivamente la sceneggiatura era veloce, fresca e diversa da quello che si vedeva in giro. Ben presto però il baraccone pareva non reggersi più in piedi: i dialoghi erano irreali, le situazioni confuse a tal punto da rendere inutile ogni tenttaivo di seguire la trama politica che stava di fondo alle vite dei protagonisti. La serie era diventato un lungo, ininterrotto, botta e risposta velocissimo tra personaggi irreali. McGyver invece è sicuramente la serie su cui il mio giudizio è cambiato di più. Quando da ragazzo guardavo Richard Dean Anderson abbattere una diga con una lattina, una gomma da masticare e una pila AA non potevo fare altro che immedesimarmi in quel geniale inventore-avventuriero, ora non posso fare altro che prendere per il culo quella zazzera e usare la sua immagine sorridente come meme del ridicolo nei forum del web.

Se facessi parte di una coppia di detective/poliziotti di una serie, chi sceglieresti come tuo partner?

Mastro Stout Domanda difficile… Non essendo una persona particolarmente pratica, opterei per Vic Mackey di The Shield, interpretato dal grande Michael Chiklis (sì, il tuo Commissario Scali, Duffo 😀 ).
Un vero duro, incasinatissimo, con una “morale” tutta sua che non voglio giudicare. Tuttavia, se ci si dovesse trovare in condizioni logistiche difficili e/o disperate (situazioni classiche, ovviamente, nei polizieschi americani), sfido a trovare un poliziotto sul cui supporto contare maggiormente.
alunno Proserpio Rust di True Detective per fare lunghe chiacchierate nichiliste, l’agente Cooper di Twin Peaks per sperimentare qualche tecnica Zen onirica di indagine. E Stavros, il riccioluto collega di Kojak, per capire che cazzo faceva tutto il giorno in ufficio. ..
duffogrup Elementare! Sceglierei Sherlock Holmes, nella versione di Jeremy Brett degli anni ’80. Sarei un ottimo Dr. Watson.

Con quale personaggio di una serie faresti cambio immediatamente?

Mastro Stout Con… troppi! ;D Per restare a serie tv recenti, in ambito sit-com direi il mitico James Belushi di La vita secondo Jim (il fatto che nella serie sia sposato con Courtney Thorne-Smith è chiaramente un quid). In ambito tv series, probabilmente Hank Moody di Californication e non tanto, banalità, per il numero di storie/relazioni/avventure che vive, quanto per l’incredibile capacità di bere alcool, di tutti i tipi e gradazioni, dalla mattina alla serie, e non soffrire mai di mal di testa! Quasi un analgesico su due piedi.
alunno Proserpio Con Garth Marenghi, sognatore, visionario, genio, autore di capolavori horror come Slicer 1-4, Black Fang e Afterbirth (in cui una placenta mutante attacca Bristol) soprattutto protagonista della serie degli anni ottanta Garth Marenghi’s Darkplace. Episodi come Once upon the beginning e The Apes of Wrath non dovrebbero mancare nella cineteca di qualunque appassionato della tv vintage…
duffogrup Con il comandante Straker di UFO che dalla sua base combatte pericolosi nemici alieni. Naturalmente l’unico abbietto motivo dello scambio sarebbe quello di essere circondato da bellissime sottoposte, coi loro mini abiti anni ’60 e tutte rigorosamente coi capelli viola. No accetterei deroghe all’abbigliamento.

Quale tra le serie tv che hai visto, a prescindere dal fatto che ti sia piaciuta o meno, reputi veramente innovativa?

Mastro Stout Risponderò sempre e solamente con una parola: Lost. Dire che mi è piaciuta tantissimo è riduttivo. Lost è stato davvero, come per tantissimi, un fulmine (ma buono) a ciel sereno, amore a prima vista. Il fatto di partire narrativamente in un modo, di indirizzarsi in un altro e di finire in tutt’altra maniera è una novità magari non assoluta, ma la tripla struttura temporale su cui man mano la serie si regge non si era mai vista prima (e credo proprio non si rivedrà mai più sul grande e sul piccolo schermo). L’ultima puntata, guardata, anzi, ammirata più volte, è sempre una grande emozione.
alunno Proserpio Ritengo assolutamente geniali alcune serie inglesi degli ultimi quindici anni: la black comedy The league of gentlemen, che crea personaggi bizzarri e li immerge in universo completamente autoportante, l’immaginaria cittadina di Royston Vasey, tra northern gothic e umorismo british. The mighty boosh, commedia pop piena di riferimenti musicali e trovate surreali (rinvio a un mio post sul tema apparso sulla Covata malefica). The Office e in genere le cose di Rickie Gervais. Ultimamente la cosa più incredibile che ho visto è Jam, del 2000, di Chris Morris, sperimentazione continua e umorismo nerissimo, audio distorto, colonna sonora elettronica che va tutto il tempo. Fa quasi star male a vederla…
duffogrup Senz’ombra di dubbio Twin Peaks di David Lynch. Per la prima volta un autore si dedica seriamente al mezzo televisivo seriale e gli dà profondità e dignità. Nelle prime puntate tutto è perfetto: il ritmo, l’ambientazione, i dialoghi, la musica. Alla fine la confusione lynchana prende il sopravvento ma la strada per le altre serie è segnata.

Una sigla da ricordare?

Mastro Stout Una? Tante, tantissime! Per non far “torto” alle sigle della mia infanzia e adolescenza, punto su una degli ultimissimi anni: il tema western di Hell on Wheels. A mio avviso, un piccolo capolavoro musicale, quasi un pezzo di Morricone velocizzato. E la serie è ancora meglio.
alunno Proserpio La silhouette di Don Draper, prima con la sigaretta e il whisky su una poltrona di design, poi che cade dal grattacielo nella sigla di Mad Men. Tutta la serie in 30 secondi.
duffogrup Scelgo quella di Attenti a quei due di John Barry (ma se barassi come fanno sempre i miei compagni di blog dovrei scrivere anche che ogni tanto canticchio pure le sigle di Missione Impossibile e di Bonanza).

Quale mezzo di trasporto vorresti guidare/portare?

Mastro Stout Anche se son rimasto scioccato dalle recenti rivelazioni su come effettivamente si muovesse (e su cui stendo un velo pietoso), non posso non citare KITT, la mitica Pontiac Firebird Trans Am di Supercar (Knight Rider).
alunno Proserpio La vasca di deprivazione sensoriale in cui si immerge Olivia in Fringe.

duffogrup Per l’atmosfera e l’avventura che si porta dietro scelgo il Cutter’s Goose, l’idrovolante scarcagnato della serie I Predatori dell’Idolo d’oro. Anche se c’è il serio rischio di schiantarsi ad ogni decollo.

Se ne fossi stato il produttore, quale serie avresti interrotto prima del tempo per evitarne l’avvenuto declino? E per quale invece ti saresti battuto per evitarne la chiusura?

Mastro Stout Direi proprio House of Cards. Ho solo iniziato a seguire la terza stagione, per poi mollare, ma è davvero di tutta altra pasta rispetto alle prime due. Capisco le logiche commerciali ma la serie aveva trovato un suo finale (perfetto) al termine della seconda stagione.
Senza ombra di dubbio Night Stalker (2005-2006), la serie più inquietante mai seguita che, proprio per le sue atmosfere horror, ha spaventato troppo l’infantile pubblico americano che ne ha decretato una prematurissima e inconcludente fine già al 6° episodio (da noi sono almeno giunti ulteriori 4 episodi che eran stati girati). La storia del giornalista Kolchak è tragica, le vicende che si trova ad affrontare spaventevoli. La “fine” lascia decisamente l’amaro in bocca per quello che poteva essere e non è stato (raccontato).
alunno Proserpio Facile, Heroes dopo la prima serie. O Fringe dopo la terza.
Freaks & Geeks, interrotto dopo una sola stagione e poi diventata di culto. A fare giustizia però il successo di moltissimi attori: dal simpatico delinuqente James Franco, allo scontroso Seth Rogen. E poi Linda Cardellini, deliziosa brava ragazza che si unisce ai Freaks, Jaseon Siegel, Martin Starr. Autore di questa tenera odissea nerd ambientata nel 1980 Paul Feig e a produrre un certo Judd Apatow…
duffogrup Probabilmente avrei interrotto The Big Bang Theory che dall’essere la serie definitiva per nerd sui nerd (inteso in termini molto allargati) si è trasformata, dopo 8 stagioni, in una sitcom come tante altre. Mentre mi sarei battuto come un leone per far diventare la miniserie The Lost Room una serie in piena regola avendo un grandissimo potenziale in termini di sviluppo della storia.

Una serie e/o una miniserie che vuoi consigliare a tutti per le lunghe notti invernali che si stanno avvicinando.

Mastro Stout Sicuramente Daredevil. Lo dico a scatola chiusa, non avendo visto ancora nessun episodio, ma raramente ho sentito parlare così bene di un telefilm, addirittura in termini di cinefumetto definitivo.
alunno Proserpio Life’s too short di Gervais, con Warwick Davis: l’episodio di Johnny Depp e quello di Helena Bonham Carter sono in grado di illuminare tutte le serate d’inverno dei prossimi dieci anni. Oppure Tinker Taylor Soldier Spy, la serie anni settanta della Bbc, con Alec Guinness nella parte di Smiley, la spia di John Le Carre. La migliore spy story e forse la miglior mini serie di tutti i tempi.
duffogrup Voglio consigliare Silicon Valley perchè in una manciata di puntate Mike Judge (quello di Beavis and Butthead) è riuscito a creare dei personaggi comici leggendari. Se poi avanza un po’ di tempo ci si può sempre tuffare nel crazy-fantasy delle miniserie inglesi tratte dai libri del Mondo Disco di Terry Pratchett oppure, se si vuole prestare il fianco alla nostalgia, rigustarsi l’unico capolavoro italico della nostra infanzia televisiva: le 5 puntate del Pinocchio di Comencini.


I Quiz del Dead Parrot: Comics!


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Con quale personaggio dei fumetti passeresti una serata al bancone di un pub tracannando pinte?

Mastro Stout Troppo facile! Pinte (di Guinness, ovviamente) + pub = l’unico e il solo John Constantine!
alunno Proserpio Facile, con Capitan Haddock, anche se sono sicuro che poi finirebbe in rissa, col capitano che sbraita contro gli altri avventori insultandoli in modo fantasioso. Forse però sarebbe meglio andare direttamente sul Whisky!
duffogrup Direi che approfitterei del massimo esperto di birra nel mondo del fumetto e cioè Charles Steenfort, protagonista della prima parte della saga dei Maestri dell’orzo di Jean Van Hamme e Francis Vallès nonchè capostipite della tradizione birraia della famiglia Steenfort. Sarebbe una serata interessante, corredata da spiegazioni dettagliate sui pregi della birra belga e innumerevoli insulti nei confronti di quella tedesca.

Con quale personaggio dei fumetti passeresti una (ma anche più di una, per Diana!) romantica serata?

Mastro Stout So io, so io la risposta di Duffo! Diana Lombard in Mystère 😉 Ora non dire che non è vero, Duffo! Quanto a me, direi che, pescando a caso tra le Bad Girls dei comics USA dei Nineties, cadrei benissimo! In ambito orientale, sicuramente una tra Lamù, Fujiko Mine e Misato Katsuragi.
alunno Proserpio Questa è più difficile, probabilmente con una delle misteriose fanciulle di Corto Maltese, da Pandora a Esmeralda, con i quattro assi tatuati sullo zigomo… anche una delle cattive andrebbe bene, tipo Venexiana Stevenson o Melodie Gael…
duffogrup Effettivamente la bella Diana, trascurata per tanto tempo dal bvzm Martin, così impegnato a parlare, parlare, parlare.. potrebbe essere una preda fin troppo facile. Però da gentleman quale sono non mi intrometterei mai tra una coppia sposata, almeno non con Java tra i piedi. La mia scelta quindi va alle sorelle Kisugi di Occhi di gatto. Naturalmente le inviterei in serate diverse, dedicando ad ognuna di loro le attenzioni che meritano. D’altronde sono pur sempre un gentleman.

Con quale autore di fumetti polemizzeresti volentieri de visu?

Mastro Stout Facile per me: uno a caso del Trio dei Sardi di Nathan Never!
alunno Proserpio Come tutti avrei voluto polemizzare col defunto Sergio Bonelli, chiedendogli ragione di una serie di scelte editoriali. Ma poi come portare rancore a uno che dopo tutto ha fatto cose importanti per il fumetto italiano? Pensando a chi è rimasto tra noi forse vorrei fare a cazzotti con Manara, ovvero il più grande talento sprecato del fumetto.
duffogrup Rumiko Takahashi. Chiederei alla regina del manga perchè non sia mai riuscita, con la sola eccezione di Maison Ikkoku, a scrivere un finale degno per le storie che ci ha regalato in questi anni.

Con quale autore di fumetti discorreresti con piacere per ore?

Mastro Stout: Non appartiene alla Nona ma all’Ottava Arte ma, insomma, lo devo proprio menzionare: Hideaki Anno, la mente dietro a Neon Genesis Evangelion.
alunno Proserpio: Anche qua, potendo andare nell’aldilà, sicuramente vorrei incontrare il più grande talento psichedelico avuto in Italia, ovvero Rodolfo Cimino. Gli chiederei da dove venivano fuori creature come i mitici Tapirlonghi Fiutatori. Altrimenti Alan Moore, anche se avrei un pò di paura ad averci a che fare.
duffogrup: Io farei volentieri una bella chiacchierata con Alfredo Castelli. Testando, con domande a ripetizione, la sua proverbiale cultura enciclopedica sulla storia della stampa americana, sui romanzi d’avventura e sui fumetti mysteriosi.

A quale personaggio dei fumetti consegneresti la fascia di capitano della tua squadra di Fantacalcio?

Mastro Stout: Non ho dubbi: Genzo Wakabayashi (a.k.a. Benji Price) di Captain Tsubasa (a.k.a. Holly e Benji).
alunno Proserpio: A King Mob degli Invisibles, per una partita di calcio psicoattiva, a base di guerriglia urbana e arcani rituali di magia sessuale.
duffogrup: Naturalmente a Shingo Tamai il protagonista di Arrivano i Superboys (Akakichi No Eleven) l’anime dove il calcio in versione samurai diventa sudore, fango e lacrime. Sta a Holly e Benji come il calcio italiano degli anni ’70 sta a quello attuale.

La sigla più figa di un anime / cartone animato?

Mastro Stout: Strumentale: Wacky Races e il tema di Lupin III a pari merito; cantata: “Zankoku Na Tenshi no These”.
alunno Proserpio: Facilissimo, c’è qualcuno che non considera Jeeg la sigla più figa di ogni tempo? Se valgono anche i film ci metto una qualsiasi di Hisaishi per Myiazaki. Ma anche la colonna sonora di Akira…mmmh…forse non è una domanda così facile!
duffogrup: Josie and the Pussycats, ritmo indiavolato e tre ragazze che suonano vestite da gatte. Cosa volete di più?

La domanda più banale possibile: i 3 fumetti più belli mai letti e che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita?

Mastro Stout No, davvero impossibile rispondere citando solo 3 opere. Mi “limiterò” a dirne un paio per ognuna delle tre scuole fumettistiche che apprezzo e conosco maggiormente. USA: spezzo la risposta tra fumetti pubblicati dalla DC e dalla Marvel, altrimenti non ne esco! DC: Batman: Il lungo Halloween e il suo seguito Batman: Vittoria Oscura (anche se, come storie brevi, citerei La storia di Sam su Superman/Batman #26 e, seppur di tutto altro genere, una delle avventure che da bambino mi fecero sognare a occhi aperti, anche per indubbio merito del formato gigante in cui venne pubblicata nei primissimi anni ‘80: Superman vs. Wonder Woman del maestro Garcia Lopez); Marvel: Iron Man: Com’è successo, com’è stato, come va adesso di Matt Fraction & Salvador Larroca (ma mi sento anche di nominare, come storia lunga, la saga di Wolverine Nemico pubblico di Millar & Romita Jr.). Giappone: anche qui nomino una storia breve (Tenera è la morte di Kinotoriko) e una un po’ più lunga (L’uomo che cammina di Jiro Taniguchi). Italia: altra fatica di Tantalo! Do due risposte, una per il fumetto d’autore, Una ballata del mare salato di Hugo Pratt, e un’altra per il fumetto popolare, la saga What If di Zagor su uno dei ritorni di Hellingen, realizzata da Sclavi e Ferri (Zagor #275-280).
alunno Proserpio Difficilissima, perchè la risposta potrebbe cambiare di volta in volta. Comunque sparo: Akira, capolavoro di narrazione pura con disegno incredibile, Watchmen, per la capacità di decostruire e reinventare i codici fumettistici, e I gioielli della Castafiore di Hergè, incredibile tour de force comico-avventuroso. Ci metto a pari merito La ballata del mare salato, bieco trucco per dirne almeno 4.
duffogrup Nell’imbarazzo di non saper scegliere mi butto e tiro fuori tre titoli “strani” tra i molti che meriterebbero di essere citati: La Fiera degli Immortali di Enkil Bilal dove ogni vignetta è un quadro; Devil Man di Go Nagai, una storia che pagina dopo pagina s’inabissa nel terrore e nella disperazione ma che non si riesce a smettere di leggere fino ad un sconvolgente finale; La Saga della Spada di Ghiaccio di Massimo de Vita che riesce nell’impresa titanica di rendere memorabile una storia con protagonisti Topolino e Pippo.


Ought, passione e calzini


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Ogni tanto la malinconia di fine estate lascia il posto alla sorpresa di qualche incontro inatteso. Non avevo alcuna particolare aspettativa per gli Ought, espatriati americani (più un australiano) arrivati in Canada per trovare Università a basso costo, chiamati a chiudere il Soundpark di quest’anno. E invece, personalmente, uno dei concerti più belli degli ultimi tempi, con i quattro a presentare sia il già classico album More Than Any Other Days, del 2014, sia il nuovo Sun Coming Down, in arrivo se non sbaglio in questi giorni.
Gli Ought pubblicano per la Constellation Records, sigillo di qualità quebechiano, la label dei Godspeed You! Black Emperor, di altri campioni del Post-rock (ammesso che questo termine voglia ancora dire qualcosa) e di solitari esploratori come Carla Bozulich. Va detto però che, a parte qualche dilatazione a base di tastiere atmosferiche e piccole incursioni rumoriste, gli Ought stanno decisamente dentro un approccio che per comodità potremmo chiamare post-punk. Chitarre taglienti, basso che si fa sentire e ogni tanto detta la melodia, viaggiando sia per oscurità alla Peter Hook sia per propulsioni quasi funky, batteria secca e grintosa, tastiere che punteggiano il tutto e voce straniata e un po’ stonata a coronare il tutto. Suono molto staccato, a strati, con quel respiro che fa appunto molto gruppo inglese dei fine settanta inizio ottanta.

Eppure, nel loro mix, gli Ought sono estremamente americani, dato che si possono trovare squillanti accelerazioni alla Feelies (fantastica e trascinante “The Weather Song”), decadenze newyorkesi di matrice Television, qualche apertura appassionata stile Dischord – qualcuno ha fatto il nome dei Fugazi, e perché no, con quei testi esistenziali e fortemente vissuti che fanno molto introversione del primo emo-core (la semi title track “Today, More Than Any Other Day”). Ci sono anche pezzi che si ricollegano direttamente ai Talking Heads degli inizi (“Habit”, nervosa e lirica), sapori da Minutemen, con un approccio comunque autoriale, in cui i ritmi e i testi si equilibrano trasmettendo un forte senso di passione e urgenza, senza quella patina arty che ogni tanto gli inglesi si portano dietro.
Su disco notevoli e dal vivo trascinanti, col cantante-chitarrista Tim Keen che sembra un incrocio tra Jarvis Cocker e il bambino del Sesto Senso (Duffo dixit), un po’ inquietante, con quel misto sfigato-sexy da Jarvis, anche se la faccia è da ragazzino su corpo impacciato e magrissimo. Oltretutto, con la strana abitudine di togliersi le scarpe e suonare in orrendi calzini blu. Un bassista, Ben Stidworthy, che tiene su il tutto e ha i capelli e lo sguardo tenebroso da attore di film adolescenziale anni ottanta, il batterista Tim Darcy che suona e ride, con attitudine punk-funk, e un incredibile tastierista, Matt May, che rifila colpi di karate al suo strumento, come Irmin Schimdt dei Can ai bei tempi, e si rovina la spalla a forza di botte sui tasti. Il pubblico gradisce, io e il Duffo pure. Memorabile la pronuncia del cantante, “Zeng iu veri macc”, che fa emergere oscuri sospetti sulla sua provenienza.