La faccia di B.H.


di

Non mi piacciono i coccodrilli e le commemorazioni, ma quando ho saputo che Bob Hoskins era morto stavo guardando The Long Good Friday da circa un’ora e fino al momento in cui ho iniziato a guardarlo il buon Bob era per me “solo” l’attore di Roger Rabbit, di Hook, del Viaggio di Felicia di Egoyan e di qualche altro buon film. Pur essendo un appassionato di cinema inglese per qualche strana congiuntura non avevo mai visto quelli che vengono considerati i due film più belli da lui interpretati, cioè Mona Lisa e, appunto, The Long Good Friday.
Quindi, mentre stavo guardando per la prima volta nella mia vita The Long Good Friday ho saputo che Bob Hoskins era morto, e la cosa era strana, a causa di quell’effetto che solo il cinema sa dare: l’evocazione di fantasmi, come diceva Cocteau, “la morte al lavoro sul corpo degli attori”. Allora sarebbe facile ammantare di significati quella che è solo una coincidenza, ma The Long Good Friday è davvero un grande film, di sicuro uno dei più bei film di gangster inglesi (se la gioca con Get Carter e Sexy Beast), ma è anche molte altre cose. Un film sullo sfascio della vita di un personaggio, sull’impossibilità di sentirsi arrivati, sulla tranquillità che va in pezzi, mentre in una giornata infernale tutto il mondo costruito da un gangster londinese si disintegra, tra bombe, accoltellamenti, tradimenti, premonizioni, vendette. E allora ecco che il senso del film di gangster può stare tutto nel fotogramma nero alla fine del film, prima dei titoli di coda: dopotutto ogni film noir è un film che parla della fine, seguendo la pendenza che fa rotolare in basso la vicenda verso uno stato zero dell’immagine e dei personaggi. Anche se è riduttivo, i film noir di solito si amano per come finiscono.
Prima di quel fotogramma nero, però, succede qualcosa. E non vorrei dire troppo perché questo è un film che va visto fino in fondo partendo dall’inizio, anche se fin dai primi secondi ci immaginiamo tutti quale può essere il finale, qual’è la necessità che trascina verso qualcosa di inevitabile questo personaggio che verrebbe da definire shakespeariano. Un personaggio che vive sul bordo di una storia in cui si intreccia un po’ di tutto, il terrorismo dell’IRA, il rampantismo economico che annuncia gli anni nerissimi del thatcherismo, il declino britannico alla fine degli anni settanta (ma anche l’orgoglio cockney rivendicato nel fantastico discorso ai “partner” americani). Prima del fotogramma nero ci sono circa 90 secondi in cui Bob Hoskins non è solo un buon attore o un grande attore; ci sono 90 secondi di quelli che molti grandi attori non riescono ad avere in tutta la loro carriera, ed è solo un gioco di occhi, faccia, bocca, collo, denti.
Davvero, se vuol dire qualcosa, il finale di The Long Good Friday è il senso di una storia che si consuma, di tutte le cose che finiscono, forse anche il senso di una vita, nella faccia di Bob Hoskins in un film di gangster.


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