Dead Parrot’s “We were there” Compilation


di
and


Public Service Broadcasting – Everest (Visti a Sexto Nplugged 2016)
Goblin – Deep Shadows (Vista al Traffic Festival 2009)
Raime – Exist In The Repeat of Practice (Visto al Codalunga 2014)
Rover – Tonight (Visti a Sexto Nplugged 2013)
Protomartyr – Come & See (Visti al Cas’aupa 2014)
Baudelaire – Baustelle (Visti al New Age Club 2008)
!!! (Chk Chk Chk) – Heart Of Hearts (Visti a Ferrara sotto le stelle 2010)
Chrome Hoof – Tonyte (Visti a Italian Wave Love Festival 2008)
Silverio – Perro (Visto al Codalunga 2014)
Asian Dub Foundation – Fortress Europe (Visto a Marango Ca’ Alleata 2007)
St. Vincent – Birth In Reverse (Vista a Sexto Nplugged 2015)
Fuck Buttons – The Red Wing (Visti a Arti Vive Festival 2014)
Mogwai – Rano Pano (Visti a Sexto Nplugged 2018)
Pulp – Do You Remember The First Time (Visti alla Fiera della Musica 2012)
Zu – Ostia (Visti a Trieste Teatro Miela 2010)
Trentemøller – Moan (Visto a Sexto Nplugged 2017)
Amari – 30 anni che non ci vediamo (Visti al New Age Club 2013)
The Divine Comedy – Tonight We Fly (Visti a Sexto Nplugged 2011)
LCD Soundsystem – Tribulations (Visti a Ferrara sotto le stelle 2010)
Santigold – L.E.S Artistes (Vista al Traffic Festival 2009)
Soulwax – NY Excuse (Visti a Jesolo Terrazzamare 2008)
The Wombats – Let’s Dance to Joy Division (Visti al New Age Club 2011)
Franz Ferdinand – Ulysses (Visti a Jesolo Palasport 2009)
Ninos Du Brasil – Sombra da Lua (Visti a La Tempesta, l’Emilia, la Luna 2014)
The Mojomatics – Wait A While (Visti a Italian Wave Love Festival 2008)
Nouvelle Vague – In A Manner Of Speaking (Visti a Sexto Nplugged 2011)
Ottone Pesante – Evil Anvil (Visti al Deposito Giordani 2015)
Radio Moscow – 250 Miles (Visti a Festintenda 2009)
Liars – Mess On A Mission (Visti a Spazio Aereo 2014)
Bud Spencer Blues Explosion – Hey Boy Hey Girl (Visti al Zion Rock Club 2009)


Attention… trois, deux, un..a serie francese molto bella


di

Parbleu! Come Jean Valjean, che si prostra davanti al vescovo Myriel, anche io devo chiedere perdono. Come Quasimodo che si arrampica sulle guglie di Notre Dame, anche io devo affrontare il vuoto che mi ostinavo ad ignorare. Come Zidane che organizza un tete à tete con Materazzi, anche se sarebbe meglio dire un tete à petto, anche io devo sbattere contro il muro la mia capoccia in segno di disperazione. Devo redimermi perché per troppo tempo il mio modo di giudicare le serie tv francesi è stato influenzato da una serie di cliché ingiustificabili. A rafforzare i miei preconcetti soprattutto negli ultimi anni hanno contribuito in maniera determinante quelli de La7 che con Matlock, L’ispettore Tibbs e Barnaby hanno fatto delle serie per vecchi il fil rouge della loro programmazione. Partendo dall’immarcescibile “Commissario Cordier”, passando per “Il comandante Florent”, finendo con “Joséphine, ange gardien”, le ultime esperienze televisive derivate dalla Francia rimangono per me indissolubilmente legate al ricordo di noiose visioni pre-cena a cui, con vari escamotage, cercavo di esimermi.Senza avvicinare mai l’aplomb di Maigret, né le rugosità del commissario Navarro, le espressioni e le abilità investigative di Cordier ricordavano piuttosto quelle di Louis de Funes gendarme a Saint Tropez. La trama in ogni episodio era pressoché la stessa: Cordier, nonostante i guai a gogò che i suoi famigliari gli propinano, risolve casi abbastanza banali ma ci arriva sempre troppo tardi per salvare almeno due o tre malcapitati di turno. Stesse caratteristiche ma con molto più charme del personaggio di Pierre Mondy dimostrava Il comandante Florent, interpretato da Corinne Touzet, che a differenza dell’anziano ispettore parigino vantava una maggiore agilità nell’azione e un’abbondante decolleté che sfortunatamente nascondeva sotto l’uniforme da ufficiale della Gendarmerie. Concludo il terzetto parlando dell’angelo Joséphine rischiando la gaffe ad ogni parola visti i tempi che corrono. La protagonista Mimie Mathy è un angelo, è una nana ed è, ça va sans dire, pasticciona, goffa ed estremamente irritante. Passa intere puntate ad aspettare che i personaggi che deve aiutare trovino da soli la soluzione ai loro problemi poi, constatato il cul de sac in cui si sono ficcati, schiocca le dita, fa una magia et voilà, tutto risolto.
E’ con l’esperienza di questi precedenti quindi che ho proceduto ad una visione en passant su Netflix di un paio di episodi della serie d’oltralpe Chiami il mio agente (Dix pour cent), anche su consiglio-istigazione dell’alunno Proserpio. La serie parla di un’equipe di agenti cinematografici, degli attori a cui questi prestano i loro servizi e in generale del mondo del cinema francese. Altre serie e film hanno trattato il mondo dell’entourage delle star ma nessuno con l’autoironia e una nonchalance tipicamente parigina che Chiami il mio agente dimostra.Da sempre sono un habitué del cinema francese, anche se ho un po’ di ritrosia per i film noir ed i polar in particolare. Apprezzo autori come Ozon che non cadono nella routine dei generi e riescono a cambiare registro da un film all’altro, passando da commedie esilaranti come Potiche – La bella statuina a gialli psico-sociologici come Nella casa. Entrambi questi film sono interpretati da una leggenda della Comédie Française, Fabrice Luchini, uno dei tanti attori che in Chiami il mio agente interpretano se stessi. Tra gli altri: Jean Reno, attore un po’ imbolsito che ha perso il solito savoir faire; Monica Bellucci che per l’occasione risfodera il suo classico personaggio di femme fatale, l’unico che sa fare, che tempesta di avances il suo agente; di nuovo Mimie Mathy che invece di fare l’angelo pasticcione fa una se stessa un po’ stronza che lascia in panne l’agenzia al minimo errore. Ho finito l’intera serie (24 episodi) in pochi giorni, in un per me inusuale tour de force su Netflix. Nonostante qualche défaillance, soprattutto legata ad un paio di personaggi non azzeccati, le puntate scorrono molto piacevolmente. Il finale della quarta stagione (attenzione spoiler) inoltre non è per niente consolatorio anzi, l’agenzia dei protagonisti infatti chiude e la débâcle è tale che alcuni di loro decidono anche di cambiare lavoro. Andréa ad esempio, interpretata da Camille Cottin, all’inizio della serie è la classica donna in carriera, alla fine si dimostra dura come la crème brûlé quando trova l’amore della vita e lascia tutto per lei. Sarà pure un messaggio un po’ demodé, fuori dagli schemi dei moderni maître à penser che insistono su improbabili lieto fine dove affari e sentimenti trovano un magico incastro, ma lo trovo molto più interessante perché in fin dei conti c’est la vie.
Ps: avrei potuto inserire molti altri francesismi ma ormai les jeux son fait rien ne va plus.


L’uomo medio distopico (Parte II) – La bolla


di

Circa un mese fa Rai Storia ha mandato in onda Sono nato comunista, un documentario del 2017 realizzato da Catherine McGilvray. Elemento centrale del film sono interviste, intervallate da filmati e foto d’epoca, a sei persone che tra gli anni ’50 e ’60 furono protagonisti di un avvenimento non molto conosciuto della storia della sinistra italiana. Dal 1955 al 1961 la FGCI (la federazione dei giovani comunisti italiani, da non confondersi con quella dei giovani calciatori) inviò ogni anno 15 tra i suoi membri a studiare a Mosca, in una sorta di precoce progetto Erasmus comunista. Il documentario è molto interessante soprattutto perché i ricordi personali di quei giovani, allora convintamente comunisti, si mescolano al racconto dei cambiamenti ideologici e delle drammatiche conseguenze che in quegli anni avvenivano all’interno del blocco comunista e dello stesso PCUS. I giovani italiani avvertivano, chi più chi meno, le contraddizioni di un’utopia di sinistra che si scontrava con una realtà ben diversa: dall’invasione dell’Ungheria al cambio al vertice tra Krushev e Breznev, fino alla costante presenza di una apparato burocratico opprimente anche nei confronti di chi in Unione Sovietica ci era arrivato entusiasticamente. Il punto più interessante è però l’atteggiamento che rispetto a questi temi tenevano gli autoctoni. I russi molto semplicemente se ne fregavano; il loro era un modo di vivere in quella società distopica del tutto simile a quello tenuto dal personaggio di Julia in 1984 di Orwell. Partecipazione entusiasta alle manifestazioni esteriori proprie del mondo comunista e, contemporaneamente, affrontare la vita serenamente, cercando di cogliere gli aspetti positivi offerti da quella società. Nel documentario si citano candidamente il basso costo della vita, l’ottimo livello dell’educazione statale e i molti eventi di socializzazione che costellavano le giornate sovietiche come elementi positivi, in particolare per i giovani comunisti; questo naturalmente a patto di rinunciare a molte delle proprie libertà politiche.
Un esempio di questo “accordo” dell’uomo comune con la società dispotica lo ritroviamo incredibilmente ne Il Compagno don Camillo quando il viaggio della comitiva brescellese in terra sovietica deve affrontare un delicato imprevisto. L’avvicendamento tra la destalinizzazione rampante di Krushev e la dottrina della sovranità limitata di Breznev costringe infatti Don Camillo, Peppone e tutta la delegazione, a rimanere confinati nel proprio albergo su richiesta del rappresentante locale del partito. Agli italiani non viene fornita alcuna motivazione della forzata detenzione. Proprio quando ormai i nostri temono il peggio, inconsci del dilaniamento ideologico interno al comunismo di quei giorni e che tanto farà scrivere in futuro filosofi, storici e politologi, la defenestrazione del vecchio segretario si concretizza con lo scambio sui muri delle camere delle fotografie ufficiali di Krushev con quelle di Breznev.Scambiata l’immagine del Grande Fratello, la gita per il gemellaggio può ricominciare da dove si era interrotta tra visite a stalle e fattorie, gare di pesca allo storione e rappresentazioni di bislacche opere liriche. Alla fine del film, nel paesello sovietico si viene addirittura a creare una situazione del tutto simile al proprio gemello padano quando il pope, su istigazione di Don Camillo, dà una bella ripassata al collega russo di Peppone. Insomma anche sulle rive del Don puoi crearti il tuo paesello ideale, la tua Brescello utopica, basta che sia una bolla all’interno della società distopica. E puoi spingerti anche più in là. All’interno della narrazione l’utopia può essere completamente immaginata dai personaggi e non per questo noi spettatori non la prendiamo per reale. In Brazil di Terry Gilliam, il protagonista fugge con la sua amata verso una vita migliore, lontano da quel mondo kafkiano molto simile ad una versione comica di Orwell. Sappiamo che quello che vediamo non è reale neanche nel mondo di Brazil, è un secondo livello di narrazione, ed è lo stesso Gilliam a dircelo mostrandoci la realtà della camera delle torture. Ma lo prendiamo per vero lo stesso. Questa bolla esiste solo nella testa di Jonathan Pryce, uomo comune come noi, e questo ci basta.


L’uomo medio distopico (Parte I)


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Riparto dall’immondizia. Non solo l’immondizia vera e propria ma anche quella umana. Quella rappresentata da chi, senza farsi alcun problema, si disfa della prima nei modi più disparati ma rigorosamente contrari alla legge: dal banale apro il finestrino dell’auto e getto il rifiuto in corsa, al più originale metto tutta la rumenta di casa indifferenziata nel sacchetto del supermercato e lo ficco a forza dentro al primo cestino pubblico che trovo per strada (o in autostrada, come mi è più volte successo di vedere).
Mentre faccio jogging vicino casa, su una strada di campagna che costeggia una statale, mi imbatto in una discarica improvvisata di plastiche, cartacce e mascherine buttate sull’erba del terrapieno, in corrispondenza di un’area di sosta, presumibilmente da svariate decine di stronzi. Evidentemente i suddetti non riuscivano proprio a tenersi quella roba in macchina un minuto di più. Nei mesi scorsi quella pattumiera a cielo aperto non c’era e mi ritrovo a pensare come il lockdown abbia abbassato ogni livello di pudore nel modo di comportarsi, d’altronde tutti questi mesi al chiuso ci hanno fatto passare in poco tempo dal girare per casa in jeans al farlo in tuta e da questa alle mutande. Dal barbiere ogni 2 mesi, a pettine e gel davanti allo specchio del bagno, per finire coi nidi di rondine tra i capelli. Questa trasandatezza a quanto pare si è trasferita anche nell’etica di come viviamo il mondo. E dopo questo pensiero faccio una considerazione che mi inquieta: come sarebbe bella una società di individui che rispettano la legge solo perché è giusto farlo. E se uno sbaglia, zac! Se uno abbassa il finestrino e butta la mascherina, zac! Se uno parcheggia dove non deve, zac! Se uno anche solo ci pensa, zac! Insomma mi accorgo che sto pensando con invidia ad una società non molto diversa da quella descritta da Orwell in 1984 (di cui incidentalmente sto ascoltando l’audiolibro). E’ veramente possibile pensare in chiave utopica ad una società nata nella mente del suo creatore per essere l’esempio più aberrante di distopia?

Chiaramente Orwell scriveva 1984 in pieno stalinismo, le sue paure e le sue visioni erano molto più reali di come le possiamo percepire noi oggi. Aveva un esempio concreto di cosa era diventata la fattoria quando i maiali avevano fatto fuori gli altri animali dopo la rivoluzione. Però se pensiamo a singoli fattori originari e fondanti di quella stessa rivoluzione, elementi come l’egualitarismo giuridico dei cittadini, la parificazione delle condizioni economiche degli individui più poveri e il ristabilimento dell’ordine da una situazione di caos, anche violento, non si può negare che gli stessi si inserirebbero perfettamente anche nella genesi di una società utopica. Insomma una società fatta di individui uguali che lavorano produttivamente e che rispettano le stesse leggi paradossalmente diventa allo stesso tempo un mattone costitutivo di una società utopica e di una distopica. Come se un esercito di uomini-compagni-robot racchiudesse dentro sé i semi di un mondo ideale e terribile allo stesso tempo.
Da un punto di vista dell’immaginario narrativo popolare contemporaneo però questa duplicità non è stata mai considerata con l’attenzione che avrebbe meritato. L’individuo comune è una figura di contorno delle grandi narrazioni distopiche post 2000. I romanzi e i film di Hunger Games e Divergent ruotano attorno alle gesta delle loro protagoniste, che “divergono” appunto dal resto dei cittadini. E’ vero che spesso in questo tipo di narrazioni il popolo partecipa alla ribellione e, a seguito di questa seconda rivoluzione, si viene a generare una nuova utopia (con aspetti simili alla nostra realtà, alla faccia dell’autoconsolazione) ma questa partecipazione in realtà avviene solo in seguito alla rottura delle regole che l’eroe ha iniziato. In Matrix Morpheus arriva ad affermare che coloro che stanno ancora dormendo all’interno di Matrix vanno considerati come nemici potenziali, naturalmente fino al risveglio che porterà loro il politburo dei rivoluzionari. I simbolismi abbondano. In queste storie la spinta che porta una società totalitaria e repressiva, costituita nella sua quasi totalità da uomini medi rispettosi delle regole, a diventare una società libera e condivisa passa necessariamente per la rivolta violenta del protagonista. Queste narrazioni presumono che quelle stesse regole, a volte frutto di scelte passate persino condivisibili, siano diventate oppressive e non possano essere più cambiate proprio perché al popolo, e ai singoli uomini che lo compongono, manca quella spinta a romperle che invece possiede l’eroe. Nel film Ember – Il mistero della città di luce, la popolazione di questo kolchoz sotterraneo accetta con cieca rassegnazione il dettame dei leggendari Costruttori di rimanere a vivere sottoterra. Il limite di questo auto esilio dalla superficie terrestre va perso nell’ideologia che quello di Ember sia l’unico modo possibile di vivere anche a discapito di non comprendere quale era il vero significato di quel primo gesto rivoluzionario. I cittadini di Ember accettano pacificamente il razionamento dei viveri e le continue mancanze di energia accontentandosi di celebrazioni musicali dello splendore della loro città e crogiolandosi nella sicurezza di una suddivisione lavorativa dove ognuno ha un posto di lavoro sicuro. Praticamente degli androidi. Arrivano persino ad accettare con fervore il dominio su di loro di una figura indubbiamente staliniana rappresentata dal sindaco, Bill Murray, con un aiutante in perfetto stile Beria, interpretato da Toby Jones.
Naturalmente anche in questo caso sono due giovani maverick a rompere lo status quo, due freak che capiscono che in quello stato di cose qualcosa non torna. Come per Neo in Matrix, anche per Lina e Doon in Ember, per Katniss in Hunger Games, per Tris in Divergent e così via, possiamo applicare le parole rivelatrici dell’Architetto:“La tua vita è il prodotto di un residuo non compensato nel bilanciamento delle equazioni inerenti alla programmazione di Matrix: tu sei il risultato finale di un’anomalia che nonostante i miei sforzi sono stato incapace di eliminare da quella che altrimenti è un’armonia di precisione matematica.” Matrix è perfetta nella sua falsità, l’imperfezione è la ricerca di verità.
(continua)


Dead Parrot’s “Sixtystorm” Compilation


di
and


The Ventures – The 2000 Pound Bee (Parts 1 & 2) (1962)
The Crystals – Then He Kissed Me (1963)
The Beach Boys – Don’t Worry Baby (1964)
The Supremes – Baby Love (1964)
The Righteous Brothers – You’ve Lost That Loving Feeling (1964)
Petula Clark ~ Downtown (1964)
Jerry Butler – I don’t want to hear it anymore (1964)
Bob Dylan – She Belongs to Me (1965)
The Animals – We’ve Gotta Get Out Of This Place (1965)
13th Floor Elevators – You’re Gonna Miss Me (1966)
Donovan – Season of the Witch (1966)
Robert Knight – Everlasting Love (1967)
Frankie Valli – Can’t Take My Eyes off You (1967)
Traffic ~ Hole in My Shoe (1967)
The Spencer Davis Group – I’m a Man (1967)
Otis Redding – Sittin’ On the Dock of the Bay (1967)
Buffalo Springfield – Mr. Soul (1967)
Soft Machine – Why Are We Sleeping? (1968)
The Turtles – You Showed Me(1968)
The Kinks – The Village Green Preservation Society (1968)
Scott Walker – Copenhagen (1968)
Steppenwolf – Magic Carpet Ride (1968)
Nick Drake – River Man (1969)
Sly & The Family Stone – I Want to Take You Higher (1969)
Fairport Convention – Crazy Man Michael (1969)
Bridget St. John – Ask Me No Questions (1969)
Frank Zappa – Peaches En Regalia (1969)
Grateful Dead – St. Stephen (1969)
The Stooges – No Fun (1969)
King Crimson – 21st Century Schizoid Man (1969)


Dead Parrot’s “Tropicalia and other latitudes” Compilation


di
and


Caetano Veloso – Tropicalia (Brasile 1968)
Los Holy’s – Sueño Sicodélico (Perù, 1967)
Raul Seixas – Mosca na Sopa (Brasile 1973)
Assagai – Telephone Girl (Sudafrica, 1971)
Femi Kuti – Truth Don Die (Nigeria, 1998)
Soyol Erdene – Song of My Happiness (Mongolia, 1981)
Elias Rahbani – Dance of Maria (Libano, 1972)
Yma Sumac – Ataypura (Perù, 1950)
Ngozi Family – Night of Fear (Zambia, 1977)
Jackie Mittoo and The Soul Vendors – Drum Song (Giamaica, 1968)
Sun City Girls - The Shining Path (USA, 1990)
Alma y Vida – Don Quijote de barba y gabán (Argentina, 1972)
Mano Negra – Mala Vida (Francia, 1988)
Cesaria Evora – Sodade (Capo Verde, 1992)
Bombino – Amidine (Niger, 2013)
Mulatu Astatke – Yegelle Tezeta (Etiopia, 1972)
Devendra Banhart – Santa Maria Da Feira (USA, 2005)
Jorge Ben Jr – Take It Easy My Brother Charles (Brasile, 1969)
Os Korimbas – Sémba Braguez (Angola, 1974)
Beck – Tropicalia (USA, 1998)


Your Name. Cinema o Anime al cinema?


di

Nonostante la distribuzione ricattatoria che Your Name ha avuto nel nostro paese all’interno della rassegna denominata Anime al cinema, caratterizzata da proiezioni effettuate durante i giorni feriali al prezzo di 11 Euro, il successo di pubblico è stato tale che il film di Makoto Shinkai è rimasto nelle sale molto più rispetto alle previsioni iniziali del distributore. Oltre alle date iniziali del 23/24/25 gennaio in alcune città il film è stato proiettato anche nelle settimane successive, sempre a prezzo maggiorato giustificato dall’appellativo ormai ineluttabile di evento speciale. Un successo trainato dal passaparola tra i fan nostrani degli anime e che dovrebbe far pensare i distributori “normali” sul fatto che in Italia, film dello studio Ghibli a parte, esiste un mercato recettivo verso questo tipo di prodotto cinematografico e che lasciarlo del tutto nella disponibilità di un unico soggetto, che continua a ricattare (non mi viene in mente altro verbo) gli appassionati di anime, è un controsenso economico oltre ad essere un freno enorme dal punto di vista culturale.
Ma veniamo al film in sè che è bello e sicuramente merita tutto il successo che ha avuto in giro per il mondo.
Non arriverò a definirlo un capolavoro come ha fatto Mastro Stout, ma sicuramente è un film che in ogni sua parte è fatto molto bene: dalla storia, al character design, alle canzoni, tutto è realizzato con estrema cura. Lascio il termine capolavoro ad una manciata di titoli che si stagliano nella mia memoria come delle vette difficilmente avvicinabili. Però è rassicurante che nonostante una leggenda come Hayao Miyazaki e il suo studio Ghibli abbiano smesso da più di tre anni di produrre film, lo spazio lasciato libero sia stato subito occupato dai film di nuovi autori. Il fatto che Your Name risulta essere un ottimo film comunque è molto importante, perchè si inserisce in quel processo di cambiamento generazionale che sta vivendo il cinema d’animazione giapponese. Ogni film è una nuova prova, un nuovo esame per un autore giovane come Shinkai. Tra i tanti che avrebbero dovuto partecipare alla gara per essere nominato erede di Miyazaki-sama sono rimasti in gioco (causa i decessi prematuri di Yoshifumi Kondō e Satoshi Kon, e la crisi esistenziale-professionale di Hideaki Anno) solamente due nomi: Makoto Shinkai e Mamoru Hosoda. E’ proprio ad uno dei titoli di quest’ultimo, La ragazza che saltava nel tempo, che ho subito pensato durante la visione di Your Name. Il tema del viaggio nel tempo, del destino e della sua (im)mutabilità, l’eta dei protagonisti, contraddistinguono entrambe le pellicole. L’elemento che distingue Your Name è senza dubbio quello spirituale, l’azione delle divinità shintoiste è evidente anche se le immagini non lo rendono esplicitamente.
C’è però un piccolo elemento, quasi trascurabile, che ho notato essere presente in misura maggiore o minore sia nel film di Shinkai che in quelli di Hosoda e che continua a non convincermi. Mi riferisco al fatto che sempre di più nei film post Studio Ghibli trovo situazioni in cui elementi del disegno e cinematografici si richiamano espressamente all’animazione televisiva. Per esempio i visi deformati e le stilizzazioni nei momenti di imbarazzo o di rabbia dei protagonisti e in generale nei momenti comici della pellicola. Mi sembra un elemento che stride col tono stilistico che quei film mantengono per il resto del tempo. Se facciamo un paragone con Miyazaki, certi momenti nei film Ghibli erano rari e comunque non “staccavano” troppo dal resto. In Ponyo per esempio ci sono diversi momenti definibili come infantili ma sono inseriti nel contesto di un film destinato ad un pubblico molto giovane. Sicuramente qualcuno obietterà che quegli elementi risultano essere distintivi dell’animazione giapponese però è un obiezione che prevede una consequenzialità tra anime in tv e anime cinematografici. Ritengo invece che il cinema d’animazione deve essere qualcosa di diverso rispetto all’animazione televisiva e un autore dovrebbe divaricare ad ogni film un po’ di più questa differenza. Insomma per realizzare anime cinematografici non bisogna limitarsi a portare una televisione in alta definizione al cinema, ma bisogna pensare ad un linguaggio diverso con altri standard rispetto a quelli televisivi.


Dead Parrot’s “Covers for Christmas” Compilation


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Big Black – The model (Kraftwerk)
Sonic Youth – Superstar (Delaney and Bonnie)
Grace Jones – La vie en rose (Edith Piaf)
Moullinex & Peaches – Maniac (Michael Sembello)
Turbonegro – Suffragette City (David Bowie)
Freedom Fry – 1979 (The Smashing Pumpkins)
Peter Gabriel & Hot Chip – Cape Cod Kwassa Kwassa
Caetano Veloso – Come as you are (Nirvana)
Polysics- My Sharona (The Knack)
Fantômas – Rosemary’s baby (Krzysztof Komeda)
Manel – La gent normal (Pulp)
Franz Ferdinand & Jane Birkin – A song for sorry angel (Serge Gainsbourg)
The Soft Pink Truth – Black Metal (Venom)
The Langley Schools Music Project – God only knows (Beach Boys)
Robert Wyatt – Del mondo (CSI)
The vickers – Lady (hear me tonight) (Modjo)
The spinto band – I think we’re alone now (Tiffany)
ANBB – One (Harry Nilsson)
The Tropics of Cancer – Poptones (PIL)


Superonda: storia della musica che non fece l’Italia


di

D’ora in poi quando qualche sbruffone anglosassone pasteggiando a prosecco e Ferrero Rocher durante i ricevimenti dell’ambasciatore mi sbatterà in faccia la superiorità della critica musicale d’oltremanica io tirerò fuori un volumone di più di 600 pagine intitolato Superonda: storia segreta della musica italiana. Il libro di Valerio Mattioli è un’opera meritoria, che dovrebbe essere motivo d’orgoglio della scena musicale italiana e in particolare per la categoria dei critici nostrani. Il lavoro che ha svolto Mattioli è mastodontico sia in termini temporali, infatti il periodo trattato va dal 1964 al 1976, un’intera era geologica in termini musicali, per la mole di materiale raccolto ed analizzato e per la vastità degli argomenti che il suo discorso tratta. Partendo da quella scena rock di metà anni ’60 che si pone in maniera alternativa al carrozzone sanremese, Mattioli divaga senza soluzione di continuità tra movimenti artistici d’avanguardia, corsi tedeschi di musica contemporanea, cartelloni pubblicitari, divani dal design sinusoidale, comuni hippie, laboratori fonologici, cinema western e cinema giallo, riviste musicali, droghe sintetiche, architetture improbabili, Lascia o Raddoppia e altre amenità della Rai, concerti finiti male e tanto altro (veramente tanto altro), utilizzando naturalmente come filo conduttore la musica che da quel contesto scaturiva o che quel contesto contribuiva a crearlo.

Il Sessantotto è il vero baricentro culturale del periodo considerato da Mattioli, naturalmente dal punto di vista politico ma anche da un punto di vista culturale, anche se podromi di alternatività alla cultura borghese dominante nell’Italia del boom economico vi erano già stati negli anni che precedettero Valle Giulia, un esempio su tutti il Piper. Accanto ad una storia della cultura italiana pre e post-sessantottina il libro tratta di alcuni personaggi, in particolare è centrale la figura di Ennio Morricone, che col Sessantotto da un punto di vista politico magari hanno poco da spartire ma che in un certo senso hanno avuto all’interno del mondo culturale italiano, ed in particolare quello musicale, un effetto altrettanto rivoluzionario. Per la minuzia con cui viene affrontato questo gigantesco argomento Superonda ha un respiro quasi accademico ed è una lettura obbligata per chi ha anche solo un po’ di curiosità e, come ha scritto Stefano Bianchi nella sua recensione per Blow Up, è già un punto fermo della letteratura musicale italiana con cui chiunque traccerà storie di quell’epoca dovrà necessariamente confrontarsi.

Detto questo, non succede spesso che il sottoscritto si perda in lodi sperticate per chicchessia e quindi non lo faccio neanche in quest’occasione, anzi mi sento in dovere di concludere rivolgendo qualche pseudo-critica a Mattioli e qualche altra considerazione sulla materia del libro.
Innanzi tutto ho sentito una sensazione di mancanza quasi insostenibile appena ho cominciato la lettura di Superonda, sensazione che è continuata aggravandosi fino alla fine: il libro manca incredibilmente di un indice. Non c’è un indice analitico degli argomenti ma nemmeno uno dei nomi. Un libro di storia di 600 pagine con, facciamo una media, 650 parole per pagina (basta passare un paio di pagine con l’OCR per contarle) che fanno circa 390 mila parole, ha bisogno di un indice punto e basta. Senza un indice dei nomi i collegamenti di Mattioli vanno a farsi benedire perchè io lettore, non essendo Pico della Mirandola, dopo sei capitoli posso anche non ricordarmi chi suonava il basso nei Saint Just di Jenny Sorrenti o quali architetti facevano parte del Superstudio di Firenze o chi passava l’estate a Darmstadt dei componenti del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Se una delle idee fondamentali del libro è la permeabilità di quell’ambito culturale dovuto ai rapporti e alle contaminazionni che in quel periodo avvenivano con estrema facilità, allora la mancanza di una cosa tecnica come un indice rischia di non far emergere in maniera semplice questa idea.

Un secondo appunto che mi sento di fare più che una critica è un consiglio a chi si appresta a mettersi alla lettura di Superonda. Questo libro è un invito alla multimedialità. Bisogna leggerlo a piccole dosi, fermandosi quando non si conosce qualcosa di ciò che viene descritto e andando caparbiamente alla ricerca sul web togliendosi ogni sfizio di curiosità. Non ci rendiamo quasi mai conto della fortuna di avere a disposizione una collezione infinita di immagini, filmati, brani musicali (spesso interi album) a portata di mouse finchè non ci troviamo difronte ad un catalogo di questa natura.
E qui mi collego all’ultimo punto che volevo trattare: nonostante un ondata di revival che ha spinto i discografici a ristampare diversi dischi del periodo, la grande maggioranza del materiale di cui tratta Superonda è letteralmente introvabile ed è solo grazie al lavoro di anonimi diggers (spulciatori di vinili rari alle fiere), rippatori (quelli che registrano un vinile e caricano l’audio su youtube) e collezionisti se possiamo ascoltare Fetus di Battiato, Feedback del GINC, il Volo magico di Rocchi o buona parte della library music italiana. Perchè se vogliamo proprio dirla tutta, questa musica l’Italia l’aveva per lo più dimenticata senza grandi rimpianti, con la sola eccezione del progressive italiano salvato dall’oblio da una sorta di orgoglio nazionale visto il successo di alcuni gruppi come PFM e Banco del Mutuo Soccorso all’estero. Forse il sottotitolo più adatto sarebbe stato Superonda: storia della musica italiana segreta.

Trovo che Superonda racconti fondamentalmente la storia di un movimento musicale sconfitto, capace al suo apice di muovere masse di ascoltatori verso i festival pop degli anni ’70 ma incapace di vincere la gara commerciale contro la canzonetta sanremese prima e i cantautori pop dopo. Il casino sociale e politico scatenato dal movimento del ’77 che spazzò via con una ventata di nichilismo il Sessantotto e buona parte dell’universo culturale nato dieci anni prima, nei confronti dei vari Dalla, Cocciante, Baglioni, e al loro successo di massa si dimostrò fin troppo disinteressato. Forse l’intrinseca debolezza del rock dei freak, della psichedelia e in generale di quel mondo culturale alternativo in Italia è sempre stato l’incapacità di venire a patti con l’anima artistica e commerciale del fare cultura per vivere. Da un lato c’era chi raggranellava denari inanellando hit da classifica, dall’altro chi ti rinfacciava il fatto che la musica che suonavi la vendevi ad altri ragazzi, altri compagni, e in fondo quindi eri un po’ borghese e capitalista pure tu. Era un movimento sconfitto in partenza e destinato ad un oblio che non meritava, per questo Superonda di Mattioli adesso è così importante: perché ridà dignità all’anima artistica di quell’utopia.


Dead Parrot “Highway 80” Summer Compilation


di
and


The Beastie Boys – No Sleep Till Brooklyn (1986)
Def Leppard – Let it Go (1981)
Billy Squier – The Stroke (1981)
Motley Crue – Merry Go Round (1981)
Foreigner – Juke Box Hero (1981)
Girlschool – Race With The Devil (1980)
Adolescents – Amoeba (1981)
Guns N’ Roses – Nightrain (1987)
Alien – Cosmic fantasy (1983)
Metallica – Last Caress/Green Hell (1987)
The Cult – Rain (1985)
Fastway – Trick o’r treat (1986, Trick ‘r Treat soundtrack)
Tesla – 2 Late 4 Love (1986)
Suicidal Tendancies – Institutionalized (1983)
Living Colour – Solace Of You (1989)
The Godfathers – Birth, School, Work, Death (1988)
Vangelis – End Titles (1982, Blade Runner soundtrack)