Dead Parrot’s Summer 2015 Mixtape


di
and


Slim Twig – Slippin’ Slidin’
Meg Baird – Mosquito Hawks
Powell – Rider
Kindest Cuts – Prone
Domenique Dumont – Comme Ça
De Lux – LA Threshold
The Holydrug Couple – Atlantic Postcard
Sauna Youth – Transmitters
Monsoon – Ride A’ Rolla
Jamie xx – Gosh
Mamman Sani – Dangay Kotyo
Mica Levi – Love
Refused – Elektra
Sleaford Mods – Jolly Fucker
The Bug – Function
Sikitikis – Zaire ’74
R. Stevie Moore & Jason Falkner – That’s Fine, What Time?

Bonus Track:
Calibro 35 vs Beastie Boys – Sabotaggio


L’uomo che volle farsi Werner


di

John Paul Rosenberg ha affittato una stanza per la notte in un motel del midwest. La contea o lo Stato non sono importanti. E’ il 1960 e lui sta lasciando Philadelphia, una moglie e quattro figli per iniziare una nuova vita con June. I soldi non sono un problema, il lavoro non manca e lui ha già qualche idea in testa. E’ un venditore di macchine usate e con le parole è dannatamente bravo. E’ in grado di vendere qualsiasi cosa. Ma per ora l’importante è essere lì con June, lontano da Philadelphia. Quella sera, dopo aver fatto sesso, John cerca di rilassarsi ma non riesce a prendere sonno. L’adrenalina che ha in circolo da quando la loro fuga è iniziata lo tiene sveglio, così si versa uno scotch e cerca qualcosa da leggere. Accanto al posacenere sul tavolino c’è un numero di Esquire dell’anno prima, sicuramente dimenticato lì da un vecchio cliente. In copertina una strana immagine, metà collage metà disegno, che raffigura un catcher. Un articolo sulla nuova piece teatrale di Elia Kazan, un pezzo sulla strategia mondiale dei comunisti, uno sulla brutale arte di infastidire gli avversari nel mondo del baseball professionistico e un reportage di 16 pagine sulla nuova Germania post bellica e sugli uomini che la stanno costruendo.

Il giorno dopo, mentre guida sulla route 40, accompagnato dalla radio che suona il tema di Scandalo al Sole e dalla voce di June che non la smette di fare progetti per il futuro, John ripensa ai tedeschi. Tutta quella energia lo ha colpito. Cazzo stanno ricostruendo un paese dal niente laggiù! Via chi aveva il proprio nome compromesso col passato e avanti i nuovi tedeschi. John decide che per iniziare la sua nuova vita deve tagliare del tutto col passato. Un altro nome. Via quel nome ebraico da venditore di auto usate. Anche se la sua famiglia si è convertita da tempo al cristianesimo battista, nel mondo degli affari un nome come Rosenberg può creare qualche problema. Un bel nome ariano è quello che ci vuole. Sceglie Werner come Heisenberg, perché la fisica quantistica lo affascina, e il cognome lo prende a Ludwig Erhard, il ministro dell’economia artefice della rinascita tedesca. In mezzo ci mette il nome più tedesco che gli viene in mente: Hans. Così a St. Louis, dalla macchina partita da Philadelphia su cui era salito John Paul Rosenberg, scende Werner Hans Erhard assieme a Ellen Virginia Erhard. Anche il nome June Bryde è rimasto in quel motel. Tranne qualche particolare che ho aggiunto io, questa è una storia vera, una vera storia americana, che si meriterebbe una grande trasposizione cinematografica, magari con Leo DiCaprio nel ruolo di John/Werner. Ma il film è appena all’inizio.
Dopo il Missouri, i due si trasferiscono sulla costa ovest. Facendo la spola tra Spokane, nello stato di Washington, e San Francisco. Sono i primi anni sessanta e la California sta diventando la slot machine del paese. Basta avere un’idea, un prodotto. Ma Werner non ce l’ha, se lo deve inventare. Nel frattempo Werner lavora duro. Torna a vendere macchine, poi si mette a vendere enciclopedie e alla fine diventa un pezzo grosso in una casa editrice. Ma i libri Werner non li vende solamente, li legge e impara. Soprattutto legge una serie di libri che parlano delle potenzialità inespresse del genere umano e di come valorizzarle, partendo però da punti di vista e linee di pensiero differenti (psicologia, psicoterapia di gruppo, filosofie orientali e gruppi di formazione per manager), anche se ormai vengono raggruppati assieme nella categoria dei Movimenti del Potenziale Umano. Werner rimane folgorato. Sono libri scritti per gente insoddisfatta e ambiziosa, persone disposte a pagare per farsi indicare la strada per il miglioramento personale, psicologico e sociale. Sono gli anni del benessere ma anche quelli del male oscuro che pervade la società ed in particolare la middle class americana. Gli anni in cui Ron Hubbard, curiosamente anche lui appassionato di fisica nucleare, prima si inventa il metodo di auto aiuto Dianetics e poi fa diventare Scientology un affare di valenza nazionale. Sono gli anni magistralmente raccontati da Paul Thomas Anderson in The Master.

Werner va a lavorare per il movimento Mind Dynamics che all’automiglioramento aggiunge un pizzico di Teosofia e una manciata di Rosacrocianesimo. Ed è a questo punto del film che arriva il colpo di genio: Werner si inventa gli “est”, i Erhard Seminars Training organizzati dalla Werner Erhard Foundation. Leggenda vuole che Werner avesse preso il termine est dal titolo di un libro di fantascienza, est: The Steersman Handbook scritto sotto pseudonimo da Leslie Stevens, lo sceneggiatore della serie Oltre i limiti e del film Ritorno alla laguna blu. Gli est consistevano in seminari di gruppo in cui veniva servita la crema dei vari movimenti sorti fino ad allora mescolata assieme e servita sotto forma di lezioni sulla natura della realtà, della percezione e dei sistemi di credenza. Oltre a questi elementi “didattici” venivano praticati procedimenti più diretti come attacchi verbali violentissimi nei confronti dei partecipanti, accusati di essere i veri artefici dei problemi che li affliggevano. Insulti continui e urla da parte degli istruttori sul livello del sergente Hartman di Full Metal Jacket. Molti, durante le 60 ore di seminario spalmate in due weekend, crollavano piangendo, altri vomitavano o svenivano, alcuni si cagavano letteralmente addosso. I risultati a prima vista erano strabilianti. I diplomati dichiaravano di sentirsi finalmente liberi e di stare bene. Tra loro anche nomi famosi come Cher, Buzz Aldrin e John Denver che divenne molto amico di Werner Erhard e si fece promotore di altre sue iniziative. Dal 1971 al 1984 più di 700.000 americani parteciparono agli est a colpi di bigliettoni facendo di Werner un uomo veramente ricco. Si dimostrò anche un mecenate molto generoso nell’ambito della fisica teorica, sponsorizzando movimenti come il Fundamental Fysiks Group e organizzando letture a cui parteciparono scienziati del calibro di Stephen Hawking e Leonard Susskind.
Naturalmente, come in ogni biopic americano che si rispetti, a metà del secondo tempo le cose iniziano a precipitare. L’America negli anni ’80 cambia ad un ritmo travolgente e anche est ha bisogno di un rinnovamento. Werner lo rinomina The Forum e alza le tariffe per i partecipanti, ma alla fine è praticamente la stessa cosa: urla, vessazioni, violenze psicologiche e una convincente marmellata di psicoterapia alternativa e pseudoscienze. Cominciano ad arrivare denunce di problemi psichiatrici causati dal trattamento, riconducibili anche ai tempi del trattamento est. L’IRS decide di dare un’occhiata approfondita ai conti di Werner e lo accusa di evasione fiscale. June/Ellen lo trascina in un burrascoso divorzio. Le figlie lo accusano di soprusi fisici e psicologici nei loro confronti, lui nega sempre e loro alla fine ritrattano. Il clamore suscitato da alcune inchieste televisive lo portano ad una decisione estrema. Nel 1991 cede tutte le sue azioni di The Forum agli altri soci e se ne va. Scappa lontano. Nel 1993 si aggira tra l’Europa dell’est e la Russia post comunista, poi lo vedono alle isole Cayman. John Denver intanto si è schiantato con un aereo ridicolo sulle colline nel nord della California e quasi nessuno dei vecchi amici di Werner lo cerca o si espone per dargli una mano. Qualche conferenza lo porta di nuovo negli States ma la magia è finita, come alla fine di Wolf of Wall Street, Werner può ancora insegnarti come vendere una penna ma per lui ormai sono arrivati i titoli di coda, sulle note di Take Me Home, Country Roads.

Ma cosa è successo a The Forum? Lo scopriamo alla fine, dopo i credits. I soci di Werner nel 1991 fondano Landmark che diventa un colosso della formazione di gruppo registrando profitti per circa 77 milioni di dollari nel 2009. Anche per Scientology le cose non vanno male negli ultimi tempi: gli incassi stimati superano il mezzo miliardo di dollari annui. Sorgono un po’ dappertutto Istituti e Fondazioni direttamente controllati da queste organizzazioni e che servono solo a conferire un’aura di autorevolezza a tutti i loro affari. Proprio come alla fine di The Master quando La Causa fonda e gestisce un rispettabile istituto scolastico. Proprio come in un film.


Dead Parrot’s Christmas Compilation 2014


di
and

Lay Llamas – We Are You
La Piramide di Sangue – Aperti alle Sette
Sinkane – How We Be
Sebastien Tellier – L’adulte
The Limiñanas – Votre coté yéyé m’emmerde
Jack Ladder and The Dreamlanders – Come On Back This Way
Be Forest – Captured Heart
Ariel Pink – Put Your Number In My Phone
Wild Moccasins – Eye Makeup
Dead Gaze – Yuppies Are Flowers
Panda Bear – Mr Noah
Wildbirds & Peacedrums – The Offbeat
Museum of Love – Monotronic
Sunset Valley – Jackass Crusher


From abbey to abbey
Report musicale di mezza estate (Parte II)


di

Prima di riprendere a raccontare dei concerti visti in questo scorcio d’estate mi concedo una digressione su due interessanti documentari visibili interamente su Youtube, entrambi riguardanti il tema dei festival estivi di musica rock. Il primo, Festivals Britannia, è un documentario inglese del 2010 realizzato dalla BBC e racconta l’origine e lo sviluppo del fenomeno festivaliero nel Regno Unito. A dare ascolto al documentario, gli inglesi con l’approssimarsi dei mesi più caldi dell’anno subiscono una sorta di richiamo ancestrale che li porta nella campagna circostante le loro città e li invita a dare sfogo ai più reconditi istinti di libertà e promiscuità, possibilmente in vicinanza di qualche dolmen od altri ameni luoghi druidici.
Questi sentimenti, a cui in breve tempo si aggiunse il desiderio di ballare a ritmo di musiche più moderne rispetto alle melodie barocche di Purcell o alle marce per bande di J. P. Sousa, erano per lo più prerogativa di una precisa porzione della società inglese, quella dei giovani cittadini nati durante le ristrettezze del dopoguerra. I componenti di questo nuovo gruppo sociale improvvisamente decidono di avere bisogno del proprio spazio, fisico e mentale, e per i pochi giorni d’estate dei festival tagliano letteralmente i collegamenti con la loro vita abituale. Negli anni ’60 e sino ai primi anni ’90 i festival si trasformarono in eventi giganteschi, che potevano fruttare un bel malloppo in pochi giorni ma che spesso venivano organizzati in maniera follemente dilettantesca. Venivano percepiti come una sorta di bolla in cui senso di libertà e musica la facevano da padrone anche se non mancava la possibilità di godere marginalmente di sesso, alcol, droga, un po’ di violenza gratuita e fango, tanto fango. Nel corso degli anni ’90 il fenomeno si normalizzò, il senso di anarchia si stemperò fino a sparire lasciando più spazio ai soldi e al main stream. Fu come se ai festival fosse stato applicato lo stesso trattamento destinato, durante gli stessi anni, al tifo inglese negli stadi, anche se attraverso modalità meno dirette (e repressive) da parte del governo.
Una delle cose più interessanti del documentario è l’affermazione che almeno un britannico adulto su 10 avrebbe preso parte nel 2010 ad un festival musicale. Se ci si pensa è un dato incredibile, quasi 4 milioni di persone. Una parte di questi spettatori inoltre hanno dormito nelle tende, socializzato e si sono rilassati godendo appieno dell’atmosfera originaria dei festivals; la maggior parte si sono ascoltati solo i concerti. In entrambi i casi, però, la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un fenomeno che ormai è cementato nella cultura nazionale, quasi una tradizione. I padri andavano all’isola di Whight, i figli a Glastonbury.
Molto diversa è stata invece la sensazione che ho avuto dalla visione del secondo documentario dal titolo Best Before End, prodotto da Ottofilm nel 2013 per la regia di Charlotte Trigari. Tramite una serie di interviste agli organizzatori, il documentario cerca di raccontare il mondo festivaliero italiano. Quello che restituisce è una sensazione di precarietà e disillusione. Nonostante il lavoro e la passione dei ragazzi che si sbattono per mesi, il leit motiv delle interviste è “quest’anno è andata ma non sappiamo per quanto potrà durare”. Questa insicurezza è avvertibile sia nella fase di raccolta dei fondi necessari a far partire la macchina dell’organizzazione, sia nei rapporti con le amministrazioni comunali e la cittadinanza, che durante i festival spesso si rivolgono a vigili e polizia per mettere i bastoni tra le ruote alla manifestazione adducendo come motivi la presenza di musica ad alto volume, schiamazzi e fastidi vari. Le differenze con la Gran Bretagna sono evidentissime. Da noi i festival sono piccoli, spesso gratuiti e sopravvivono grazie al lavoro dei volontari, la musica è prettamente indie, di musicisti da classifica neanche l’ombra (giusto Caparezza). Gli organizzatori non si spiegano perchè un fenomeno che all’estero è fonte di guadagno e cultura da noi non è mai riuscito ad imporsi come una delle esperienze che un ragazzo italiano può/deve fare nell’arco di un estate e le sporadiche volte che c’è riuscito è stato grazie ai soldi di marche di birre o a grossi finanziamenti pubblici. La mia risposta è che fondamentalmente l’idea di festival non sia mai penetrata nell’animo degli italiani. La musica da noi è vissuta generalmente come una cosa che ti viene consegnata a casa tutta bella impacchettata piuttosto che qualcosa che ti vai a cercare, che sei disposto a scoprire ed a sperimentare. Detto questo, devo fare anche qualche critica a chi i festival li organizza e che non va oltre a un’idea abbastanza localistica dell’evento. I festival italiani non fanno rete, non si pubblicizzano a vicenda, spesso non riescono a pubblicizzarsi neanche fuori provincia. Non penso sia un atteggiamento dettato dall’idea di allontanare il grande pubblico ma piuttosto un accontentarsi del fatto che, a prescindere che il festival vada bene o male, loro anche per quell’anno ce l’hanno fatta: il festival è partito e quindi è riuscito. Certo il non voler fare il passo più lungo della gamba è sempre un buon proposito, ma castrarsi da soli non utilizzando per esempio i social media per tempo e in maniera massiva e intelligente è un vero peccato e lo dico da diretto interessato. Quando c’è stata la possibilità di abbinare le ferie e qualche giretto turistico con festival e concerti noi del blog non ci siamo mai tirati indietro. Livorno, Torino, Arezzo, Lucca. Città visitate grazie alla musica. Evito perciò di riportare le mie parole, per lo più blasfeme, quando ho saputo il giorno stesso del concerto che gli Eels il 17 luglio erano a Fiesole. Leggo blog, forum, twitter, facebook, leggo riviste, ascolto la radio, guardo la tv e del concerto non mi era giunta notizia fino a quel giorno. Sarà che faccio tutte queste cose sporadicamente, non in maniera assidua, ma mi sento un po’ preso per il culo. Tre giorni a Firenze e concerto degli Eels, sarebbe stato perfetto e invece ciccia. Quest’anno non ci sarebbe stato nessun viaggetto musicale a meno di un miracolo dell’ultimo minuto. Ma fortunatamente questo miracolo alla fine si è materializzato con le parvenze dinoccolate e pordenonewyorkesi del bassista dei Tre allegri ragazzi morti, Enrico Molteni. Molteni, che è anche il fondatore e gran visir della Tempesta Dischi, possiede il dono di apparire improvvisamente a qualsiasi concerto nel raggio di un centinaio di chilometri da Pordenone. Proprio come al concerto dei The War on Drugs per l’ultimo appuntamento di luglio per Sexto ‘nplugged, ancora presso l’abbazia di Sesto al Reghena. I War on Drugs sono degli ottimi musicisti, ben amalgamati, capitanati da Adam Granduciel. Tutto del concerto è ottimo, i musicisti non sbagliano niente e la voce di Granduciel è adatta alle canzoni, lunghe ballads che alla fine si allungano in psicadeliche schitarrate. Eppure dopo tre/quattro pezzi comincio un po’ ad annoiarmi, verso la fine tengo a fatica gli occhi aperti e ogni tanto la testa ciondola. Questa volta ringrazio il cielo che al Sexto i concerti si ascoltano seduti.
Uscendo avviene il miracolo molteniano: scorgo dei volantini, sicuramente lasciati dal nostro, che pubblicizzano l’edizione 2014 del concerto a cui partecipano gli artisti dell’etichetta e che si intitola La Tempesta, l’Emilia, la Luna. Il concerto si svolge nell’ambito dell’Arti Vive Festival di Soliera in provincia di Modena, una rassegna di teatro, musica e fotografia. Oltre alla Tempesta è previsto il concerto dei Fuck Buttons. Un attimo. I Fuck Buttons? Dobbiamo assolutamente andarci. Nel giro di qualche giorno ci organizziamo e partiamo. Tutta la combriccola è allogiata a Nonantola, città dall’imponente abbazia romanica. Da abbazia ad abbazia, è un segno.
A fare da spalla ai FB ci sono i DID, band torinese dalle ottime basi elettroniche su cui si inseriscono delle chitarre matematiche che mi ricordano i Foals di Antidotes o ritmiche africaneggianti alla Vampire Weekend. Putroppo un grande palco di una piazza non è il luogo più congeniale per la loro musica che ascolterei più volentieri in un piccolo club o ad una festa con falò sulla spiaggia. E la stessa sensazione ce l’ho ascoltando i Fuck Buttons: la location conta eccome. Comunque il duo inglese non tradisce, con la loro elettronica che si sviluppa in strati geologici che si accumulano col passare dei secondi e che ti schiacciano fino a farti raggiungere uno sorta di trance. Non c’è niente da fare, ti viene da ascoltare chiudendo gli occhi e partendo con la mente per panorami frattali fatti di 0/1. Andrew Hung e Benjamin John Power scodellano i pezzi migliori e ogni volta ti spalmano di elettronica fino ad ipnotizzarti, fino a che qualche scossa tellurica di puro frastuono ti risveglia. Aspettavo di ascoltare live Olimpians e Surf Solar con la bava alla bocca e non sono rimasto deluso e tutto il concerto è stato perfetto. Posso finalmente depennare i Fuck Buttons dalla mia wish list.
Il giorno dopo non ho più nulla da chiedere a livello musicale e posso dedicarmi a fare il turista, visitando Nonantola e la sua abbazia, Modena e il suo duomo e i suoi musei chiusi per il terremoto. Ma a questo punto mentre, bagnato dalla pioggia, nell’unico bar di Modena aperto a luglio, assieme agli amici mangio una zeppola siciliana completamente ghiacciata e guardando ogni tanto il cielo, un po’ preoccupato per la Tempesta che sta arrivando, cedo volentieri il testimone all’alunno Proserpio perchè racconti il prosieguo di questa intensa estate musicale.
 

Prima puntata di “From abbey to abbey – Report musicale di mezza estate”


From abbey to abbey
Report musicale di mezza estate (Parte I)


di

Fedeli alle tradizioni anche quest’anno i componenti della squadra Dead Parrot, ex covata malefica, ex tana del leprecano, si sono dedicati alla solita abbuffata estiva di musica live. Prima tappa usuale del pellegrinaggio concertistico è una meta a noi cara essendo situata a due pedalate da casa, il festival Sexto ‘nplugged che si svolge nell’arco di alcune settimane presso l’affascinante scenario dell’abbazia di Sesto al Reghena. Sexto è una rassegna molto attenta alla scena alternativa e gli organizzatori sono riusciti a creare una sorta di mini riserva indie spaziando nel corso degli anni tra generi diversi, proponendo sempre concerti interessanti e mai scontati. Quest’anno ad aprire le danze ( purtroppo solo metaforicamente, visto che al Sexto ‘nplugged bisogna rimanere obbligatoriamente seduti) sono stati il 26 giugno Angus & Julia Stone preceduti da Johnny Flynn and the Sussex Wit. I fratelli australiani sfruttano le doti ipnotiche di Julia, soprattutto nei confronti del pubblico maschile, e propongono dei bei pezzi pop manipolandoli con suoni rock o atmosfere più folkeggianti. In alcuni momenti mi ricordano i Band of Horses. Meno eleganti ma devo ammettere un pelino più divertenti gl’inglesi Johnny Flynn and the Sussex Wit con il loro folk rock più semplice e diretto.

Dopo essere stati musicalmente stuprati da Silverio al Codalunga di Nico Vascellari nei modi che ha ben già raccontato l’alunno Proserpio, abbiamo deciso di seguire gli ormai svegliati istinti danzerecci e percorrere l’A4 alla volta della cava di Rupinpiccolo in pieno carso triestino per assistere al concerto della Fanfare Ciocărlia: band di musica balcanica romena o meglio band di gitani (o rom) romeni che fanno musica gitana che noi chiamiamo balcanica. La location del concerto è fantastica e riaffiorano sbiaditi ricordi di alcoliche feste in grotta organizzate nello stesso luogo dai studenti di geologia. La band ha un età media attorno ai 50 anni e un peso medio tranquillamente sul quintale eppure pestano sui tamburi e soffiano nelle trombe con una forza che li trasforma in breve tempo in una massa di carne, musica e sudore. Buona parte del pubblico, su logica richiesta della Fanfare, fanculizza le transenne che dividono i posti seduti dal resto del mondo e si mette a saltare sotto il palco ai ritmi romani.

Arriviamo così verso metà luglio ad un ulteriore appuntamento fisso delle nostre estati la Fiera della Musica di Azzano Decimo. Nel programma di quest’anno spiccava la serata dedicata a tre gruppi storici della scena di Manchester: i Buzzcocks, The Fall e gli Inspiral Carpets. A lato dei concerti la Fiera offre un altro appuntamento imperdibile: il mercato del disco, popolato da personaggi che valgono da soli il prezzo del biglietto. Nonostante la poca loquacità che contraddistingue il mondo dei mercatini di dischi, in quanto prettamente maschile come confermato dagli stessi standisti con un velo di rammarico, l’alunno Proserpio apprezza i rari discorsi filosofici che emergono da sotto i tendoni. Da parte mia, sono assolutamente convinto che venditori amatoriali di dischi siano secondi solo ai giostrai quanto a malvagità. Venendo ai concerti, molto divertenti i Buzzcocks che suonavano con 30 anni di anticipo la musica che ha fatto vendere ai Green Day milioni di dischi. Piacevole la parte di concerto degli Inspiral Carpets che non conoscevo per nulla e che, mi istruisce l’alunno Proserpio, costituirono uno degli anelli di congiunzione tra i rimasugli della new wave inglese e il nascente britpop. Uno dei gruppi di quella scena musicale che venne chiamata Madchester. Il pezzo forte della serata è comunque l’esibizione dei The Fall o dovrei dire di Mark E. Smith.Mark E Smith
Da consumato direttore di un gruppo, che ormai cambia componenti alla stessa velocità con cui lo stesso Smith scola una bottiglia, è lui a decidere anche in piena esibizione se qualcuno dei componenti va fermato o peggio eliminato. Con il rapido gesto della mano che mima lo sgozzamento usato così frequentemente nemmeno a Marsiglia negli anni ’30 o nei peggiori bar di Caracas, Smith intima al percussionista di smettere di suonare, perchè se lui non è in grado di recitare due parole comprensibili di fila allora nemmeno il pubblico deve godersi il resto della band che continua a pestare imperterrita sugli strumenti. E siccome dopo 40 minuti il pubblico si sta cominciando a scaldare, l’avvinazzato Smith decide che per lui è abbastanza e se ne va nel retro del palco. Solo che dopo un minuto si ricorda che la band è roba sua e con un altro inequivocabile gesto della mano decreta il “tutti fuori”. Comincio ad avere il sospetto che Smith abbia un passato da giostraio e che nei ritagli di tempo, tra una bottiglia di whiskey e una di Vetril, passi il tempo blaterando da solo sul Manchester City sotto una tenda lercia sperando di vendere i suoi vecchi cd rigati.


Dead Parrot’s Summer 2014 Compilation


di
and


Sean Bones – Hit Me Up
Liars – Mess On A Mission
Death Vessel – Mercury Dime
Lonely The Brave – Backroads
Hooded Fang – Younger Days
Temples – Colours To Life
Ninos Du Brasil – Sombra Da Lua
Avey Tares Slasher Flicks – Little Fang
Isaac Delusion – She Pretends
Foster The People – Best Friend
St. Vincent – Birth In Reverse
Constantines – Young Lions
Jack White – Lazaretto
Mustang – Ecran total


Polemiche a distanza


di

L’unico modo per combattere l’odio è con più odio.
Eric Cartman

Niente resterà impunito era una vecchia rubrica di Cuore dove venivano somministrate a cadenza settimanale dosi di giustizia morale al fine di raddizzare torti del passato giacenti nel dimenticatoio pubblico. Qualche giorno fa sono incappato in un vecchio articolo che Omar Calabrese scrisse sul Corriere nel 2000 e con lo stesso spirito revanscista che fu dei redattori di Cuore ho deciso di ribattere con 14 anni di ritardo a Calabrese, di cui peraltro ero stato e sono un estimatore. Nell’articolo il semiologo, scomparso nel 2012, se la prendeva con i Simpson e South Park accusando in particolare i piccoli Stan, Kyle, Cartman e Kenny, “di essere la miniatura e caricatura del mondo degli adulti, ancora una volta proprio come i Peanuts. Solo che questi bambini sono volgari e trucidi. Dicono parolacce, sono prevaricatori e violenti, fanno discorsi del tutto politically incorrect”. L’intero articolo era in effetti un paragone tra i compagni di Charlie Brown e quelli di Cartman. Mentre i primi vengono identificati come la personificazione in chiave satirica delle ansie, delle idiosincrasie e dei turbamenti dell’uomo occidentale, i secondi sono semplicemente sporchi, brutti e cattivi. Calabrese ha ragione quando indica nei bambini di Schulz lo zeitgeist di allora, la presa in giro e insieme l’endorsement nei confronti della generazione dei baby boomers che cresce tra gli anni ’50 e i primi anni ’60, confusa dai valori di quella società al tempo stesso conservatrice e rivoluzionaria, e che si andrà a spiaccicare di lì a poco sulla guerra in Vietnam, sulle famiglie sataniche e sui ghetti in fiamme. Paragonandoli ai Peanuts, Calabrese riconosce il carattere provocatorio ma accusa comunque i mostriciattoli del Colorado e la famigliola di Springfield, genitrice morale dei primi, di essere involucri di cattiverie e invettive essenzialmente vuoti. Di non avere come Schulz un obiettivo, un’idea da perseguire. South Park e i Simpson sono provocazioni fine a se stesse in quanto creature della televisione moderna dove tutto, bello o brutto, retorico o crudele, colto o trash, viene fornito indistintamente senza mediazione perchè l’unico scopo è “il successo, non il ribaltamento di un sistema di valori”.

Alla posizione di Calabrese rispondo in 3 punti:
I. Da dove vengono i Simpson e South Park? Quali sono le loro radici? Se Calabrese si fosse preso la briga di controllare meglio la genesi almeno dei primi, che nel 2000 avevano alle spalle già una decina di stagioni, avrebbe scoperto che Matt Groening non era il tipico disegnatore al soldo di una compagnia televisiva, stile Disney per intenderci, tutto matite, carta e nessuna voce in capitolo su storia e personaggi. Groening al tempo della creazione dei Simpson era un fumettista underground che aveva colpito molti con una striscia caustica e difficile come Life in Hell. Groening negli anni ‘70 si era fatto le ossa all’Evergreen State College, l’università più hippie d’America, dove aveva diretto il giornale universitario e disegnato assieme a gente come Charles Burns, per dirne uno. In una lunga e interessante intervista-monologo del 1990 rilasciata alla BBC, Groening confermava di essere sempre stato un divoratore di serial televisivi e un grande fan delle vignette di Ronald Searle del New Yorker e delle strisce di Schulz. Chiaramente sia Groening, sia Parker e Stone, debbono il loro successo alla televisione ma trovo estremamente superficiale da parte di Calabrese considerarli niente più che dei parvenu che imbroccano i gusti del pubblico. In che maniera si spiegherebbe allora il successo assolutamente internazionale delle due serie? Sappiamo bene che il pubblico americano e quelli europei hanno gusti diversi. Non sarebbe più onesto dire che il pubblico di massa ha, negli anni, cambiato le proprie preferenze e ha trovato il proprio Life in Hell a casa Simpson?

II. La dissacrazione continua, la cattiveria esplicita, una certa dose di violenza e crudeltà e la volgarità che può sfociare anche nel cattivo gusto sono componenti che derivano in modo naturale dal pensiero politico degli autori. Trey Parker, Matt Stone e Matt Groening, anche se più moderato, sono esempi di artisti che per loro stessa volontà non si posizionano in nessuno spazio politico e che spinti da un libertarismo radicale (quello sì) sfidano la libertà di espressione artistica per attaccare tutto e tutti. Siamo al confine col nichilismo? Probabilmente sì, ma non c’è alternativa. Se vuoi dire la tua sulla società dall’interno di un tubo catodico o dalla pagina di una rivista non devi farti alleati. Altro che il guscio vuoto di Calabrese. South Park è un attacco continuo all’America. Se dovessi fare un paragone arrischierei di riesumare Andrea Pazienza che in quanto a cattiveria sulle pagine non era secondo a nessuno. Zanardi padre putativo di Cartman? Nel mio immaginario sì.
Zanardi di Andrea Pazienza
III. L’incapacità di eliminare i preconcetti generazionali dall’analisi è un difetto tipico del modo in cui si parla di cultura in Italia. La chiosa di Calabrese è emblematica:”Schulz rimane ancora un grande e irripetibile maestro, il rappresentante di alcune generazioni che hanno creduto nella speranza delle idee”. La novità viene classificata e giudicata sulla base di paragoni assolutamente soggettivi, valutata su una scala di valori creata dalle proprie esperienze e regolarmente stroncata. Umberto Eco e Oreste del Buono sdoganarono negli anni ‘60 i fumetti nel mondo intellettuale italiano e lo fecero scrivendo dei Peanuts. Il risultato, oltre al fatto che finalmente anche gli studenti di sinistra non dovettero più nascondersi per leggere i fumetti, fu che un’aurea filosofica in quegli anni si creò attorno ai Peanuts e si cementificò a tal punto da essere utilizzata come arma contundente verso qualsiasi esempio di fumetto più commerciale. Spiace constatare che anche un osservatore attento come Calabrese rimase vittima di questa faida generazionale tutta italiana.

PS: un mistero aleggia nell’articolo. Ad un certo punto Calabrese cita le “scandalose” Tatarughe Ninja che sembrano attirare tutto il disprezzo dello studioso. Oltre a prenderle per delle ulteriori diavolerie nipponiche, alla stregua delle Mazinghe di Furio Colombo, Calabrese afferma che trattasi di animazione ma non disegnata bensì di pupazzi. Il mistero mi attanaglia: chi può aver preso per il culo in maniera così crudele il povero Calabrese da fargli credere che Michelangelo, Raffaello, Donatello e Leonardo vivano in una fogna di Tokyo e siano dei cugini in panno di Topo Gigio?


I pantaloni di Joaquin Phoenix e la faccia di Bruce Willis


di

Quando sono andato a vedere Her di Spike Jonze l’amica che era con me mi ha subito indicato gli assurdi pantaloni a vita alta indossati dal protagonista e da altri comprimari maschili. Dall’abbigliamento di Joaquin Phoenix ti arriva una sensazione familiare e straniante al tempo stesso. Aggiungendo ai pantaloni di panno beige gli occhiali da hipster, le camicie con micro colletti (quadrettate e a tinta unita, melograno o salmone), le scarpe scamosciate con i laccetti e un paio di baffi alla Franco Gatti, quello che ne esce è un personaggio che mi sarei aspettato di trovare in un film ambientato negli anni ’80 oppure in uno di quelli che raccontano le peripezie di qualche irresistibile gruppo di nerd (Phoenix infatti assomiglia in modo soprendente a Kip Dynamite).
Una precisazione: non mi interessa recensire il film di Jonze, non ha senso. Le recensioni fatte per stroncare o per adulare non hanno senso. Come quelle che servono solo ad includere (o sopprimere) per primi un film nel proprio zoo personale, facendo poi a gara a chi possiede la mandria più strana ed esotica. Girando per il web italiano però ti imbatti costantemente in personaggi come Giacomo Giubilini o Christian Raimo che questo ancora non l’hanno capito e si ostinano a sfornare post insulsi vomitando ogni volta litri di livore e porzioni intere di cliché da critico di sinistra. Il fatto che le loro recensioni siano praticamente sovrapponibili e che entrambi collaborino in Rai e pubblichino per Minimum Fax non mi sorprende per nulla.
Torniamo ai pantaloni di Joaquin Phoenix. In un’intervista il costumista Casey Storm sostiene che l’approccio scelto nei confronti dei costumi, e in generale quello usato per decidere l’intero aspetto visivo del film, è stato innanzitutto di togliere piuttosto che aggiungere. Her è ambientato nel futuro, nei dizionari dei film verrà probabilmente etichettato come fantascienza. Eppure il futuro di Her visivamente non è sconosciuto, non ci sono tutine aderenti o cappelli in laminato plastico, niente robot antropomorfi, scanner oculari o taxi volanti. Nonostante queste mancanze lo spettatore intuisce che quello che sta guardando è un tempo diverso dal suo. Tutto sembra come prima eppure non è così. Il traffico caotico delle grandi città è assente, la gente cammina molto e va in spiaggia. La tecnologia futuristica è prettamente informatica, nessuno batte alla tastiera del computer ma si usa solo un perfetto riconoscimento vocale. Il gadget più avvenieristico è costituito da un’auricolare. Anche per quel che riguarda gli abiti, l’effetto straniante che la visione del futuro deve creare nello spettatore è reso non attraverso improbabili futurismi ma tramite l’eliminazione di una serie di accessori che diamo per scontati come le cinture, i cappelli da baseball, i risvolti delle giacche, i colletti delle camicie e l’aggiunta di capi d’abbigliamento come i pantaloni a vita alta, arrivati in quel futuro direttamente dal nostro passato (più precisamente dalla metà del XIX secolo). Per una disamina più approfondita degli abiti del film, questo è un’ottimo post sull’argomento.

L’antitesi di Her è Looper di Rian Johnson. Le storie non hanno nulla in comune e infatti non entro proprio nel merito della trama. Rimango sul piano della forma, del pacchetto esterno che racchiude le vicende. Mentre quello del film di Jonze è un futuro utopico (a parte il senso di solitudine perenne ti verrebbe quasi voglia di viverci), Looper è l’ennesima distopia sfornata da Hollywood. Il mondo è sporco, violento, decadente. La scelta visiva, opposta a quella di Her, è quella di trasportare direttamente dal nostro tempo al 2044 una serie di luoghi caratterizzati da decadenza e depravazione: il night bordello gestito dalla malavita, i vicoli malfamati dove rischi di essere ammazzato se ti avvicini ad una moto nuova, le case dei quartieri poveri che contraddistinguono le grandi città americane. I gangster indossano giubbotti di pelle o completi scuri impeccabili e coi capelli rigorosamente ingellati. Sembrano usciti da uno dei film con protagonista Jason Statham: tutti uguali. Nelle intenzioni tutto ciò dovrebbe servire a riequilibrare l’effetto futuristico di una tecnologia poco accettabile come i viaggi nel tempo (a meno che tu non abbia una DeLorean in garage) o la presenza di esp telecinetici che si divertono a far svolazzare monetine. L’operazione: lascio sprazzi di presente per controbilanciare gli elementi più estranei del futuro, riesce solo a patto di non esagerare. In Looper si esagera e non poco; ecco quindi spuntare moto a lievitazione magnetica, improbabili colubrine a pompa e soprattutto la faccia di Joseph Gordon-Levitt. Per rendere accettabile allo spettatore il fatto che il Gordon-Levitt del futuro diventi il Bruce Willis del futuro-futuro hanno applicato al giovane attore un trucco che ne altera i lineamenti al fine di rendere plausibile la somiglianza. Posto che se prendo una foto di Bruce Willis all’età che ha oggi Gordon-Levitt dovrei trovarmi difronte, secondo le intenzioni dei produttori, praticamente il personaggio del film (Gordon-Levitt + trucco) e invece riesco a vedere solo un Bruce Willis più giovane e capelluto. Per intenderci sto parlando di Bruce Willis alla stessa età di quando interpretava in tv Moonlighting con Cybill Shepherd.

Rimango basito dal fatto che non si sia voluto dare un minimo di credito alla fantasia dello spettatore, al suo grado di accettazione di questa “bugia”, che si sia sentito il bisogno di bloccare ogni possibilità alternativa. Poniamo che Gordon-Levitt avesse interpretato il personaggio di Joe da giovane al naturale, che ad un certo punto fosse arrivato Bruce Willis dal futuro e avesse detto “Io sono te del 2074. Non ci assomigliamo perchè, per nascondermi, nel 2063 mi sono fatto cambiare i connotati da un chirurgo plastico”. A questa balla io ci avrei creduto senza grandi problemi. Mi chiedono di credere al viaggio nel tempo e non dovrei credere a questo?
Non sono dettagli. O meglio: i dettagli sono determinanti e possono condizionare la riuscita di un film ma devono essere soppesati con estrema attenzione. Togliere elementi che possono sembrare insignificanti in maniera mirata, come nel caso di Her, diventa un elemento di distinzione, aggiungere poi un anacronismo quasi invisibile diventa un fattore positivo nell’estetica complessiva del film. All’opposto, in Looper è bastato inserire a cuor leggero un elemento assolutamente superfluo ma evidentissimo come il trucco sulla faccia del protagonista per ottenere che lo spettatore si ponga la domanda peggiore: “Ma ce n’era davvero bisogno?”. Il fattore cura dei dettagli quindi è sempre cruciale, anche quando si tratta di un paio di pantaloni.


Z di zombie


di

Gli zombie non uccidono. Reclutano.
Dalla carta Assassino zombie di Magic The Gathering.

Lunedì mattina in stazione. Attorno a me decine di zombie si muovono senza un perchè, attirati inspiegabilmente da alcune scrivanie poste a kilometri di distanza. Dopo il tramonto, finito l’effetto del sortilegio, tornano verso casa con lo sguardo perso verso le campagne che il treno attraversa, destinati a cadere in un sonno profondo sdraiati sul divano.

Gli zombie originali, quelli della tradizione haitiana, sono pressapoco come quelli che ho appena descritto, anche se a farli muovere non è un contratto a tempo indeterminato (quando si è fortunati) ma una potente magia voodoo.  Schiavi privi di volontà, ipnotizzati al servizio di prezzolati santoni. Com’è possibile allora che nella cultura pop occidentale il termine zombie sia andato a sovrapporsi alla figura del non morto? Gli zombie haitiani non sono dei morti, non mangiano carne umana e rispondono inconsapevolmente al volere di qualcuno. Diversamente, i morti viventi o non morti sono per l’appunto cadaveri, faticosamente deambulanti, che scorrazzano per la città alla ricerca di qualche persona viva da spolpare. Non sono un fan del genere living deads perciò non provo nemmeno ad abbozzare una cronologia completa delle opere che li vede protagonisti ma si può sicuramente dire che è nel cinema degli anni ’60 che trovano il loro ambiente ideale per emergere e prosperare nell’immaginario pop.  Il profeta del movimento dei zombie movies è George Romero che nel fatidico 1968 gira Night of the Living Dead. Il film oltre a rivoluzionare il genere horror, stabilisce le caratteristiche essenziali dell’iconografia del morto vivente: andatura caracollante, assenza di volontà, fame postmortem e segni esteriori dell’avvenuto trapasso (occhiaie nerastre, colorito cinereo, segni di decomposizione et similia). Nonostante un successivo aumento esponenziale della componente splatter questi caratteri si sono preservati sino agli esempi più moderni del genere, tipo Resident Evil o The Walking Dead.

Gli zombie di "Night of Living Dead"

Fu quindi il film di Romero ad appiccicare il nome zombie a questi personaggi? La risposta è no. In un’intervista lo stesso Romero ribadisce di non avere mai adoperato nel film il termine zombie e che ha cominciato ad usarlo solo nel secondo film Dawn of the Dead del 1978, influenzato da coloro che, scrivendo del primo film su giornali e riviste, lo utilizzavano frequentemente. Romero spiega che l’opera che lo ha influenzato maggiormente è stato il libro Io sono leggenda di Richard Matheson. Punti in comune tra l’opera di Matheson ed il film di Romero effettivamente ce ne sono diversi ma nel libro non compaiono morti viventi bensì umani vampirizzati. In realtà esiste un film prodotto dalla casa inglese Hammer nel 1966 che possiamo considerare un anello di congiunzione tra gli zombie del mito voodoo e gli zombie della cultura pop post ’68. Il film, The Plague of the Zombies, racconta dell’apparizione di alcuni morti viventi in un villaggio della Cornovaglia. Ad aver rianimato questi cadaveri, che nel frattempo attaccano gli abitanti del villaggio, è stato un signorotto locale esperto di magia nera haitiana che utilizza i suoi zombie come minatori e killer a costo zero. Un elemento fondamentale che accomuna questo film e il libro di Matheson è la presenza in entrambi i casi di una malattia misteriosa che uccide o trasforma in essere mostruosi gli umani che vengono contagiati e che, propagandandosi tra la comunità, la getta nel panico. L’idea che gli zombie non siano altro che dei portatori di un virus patogeno resiste nel corso degli anni e diventa quasi una costante nelle storie di zombie. Per fare un esempio al di fuori del mondo cinematografico, anche nel primo numero di Dylan Dog, L’alba dei morti viventi, gli zombie altri non sono che dei frutti dei demoniaci esperimenti medici del (spoiler alert) papino di Dylan, Xabaras. Dylan Dog ci spiega che la cura più veloce e definitiva al morbo che affligge gli zombie è costituito da una pallottola nel cranio; anche quelle di semplice metallo sono sufficienti, quelle d’argento invece le tiene in serbo per i licantropi.
Questa metodologia di dezombizzazzione deriva direttamente dai film di Romero e da i vari cloni, compresi diversi spaghetti zombies, in cui i protagonisti bruciano, decapitano e smembrano ogni povero morto che cammina.
Particolare da Dylan Dog Nr. 1 "L'alba dei morti viventi"
Tutti questi elementi contribuiscono a delineare lo zombie come una delle figure più distintive della cultura di massa odierna. E’ incredibile pensare che sino a 50 anni fa, la stessa parola indicava qualcosa di profondamente diverso. L’aspetto mistico e religioso in questo nuovo protagonista della mitologia contemporanea è totalmente assente, adesso ci sono solo paura e, nei casi più interessanti, metafora sociale. Ho l’impressione che il cinema e la letteratura di genere, ma in generale l’intera cultura pop nella sua eccezione più industriale, abbia raggiunto ormai la capacità inarrestabile di triturare, analizzare e riassemblare se stessa più e più volte in archi temporali molto ristretti. In questo processo di impastamento e cottura, qualcuno degli ingredienti orginali va perso e viene sostituito da altri aromi più gustosi per il pubblico americano ed europeo.
Se consideriamo come una figura misteriosa, tutt’al più inquietante, di un folklore tutto sommato periferico alla cultura occidentale viene preso e trasformato in un incubo reale della civiltà computerizzata, capace di riempire negli anni le sale cinematografiche di mezzo mondo, ci accorgiamo di cosa è in grado di fare l’industria della cultura di massa oggi. Lo zombie come il supereroe è ormai diventato un archetipo contemporaneo, nessuno sa chi lo ha creato eppure viene costantemente rianimato, non dal Baron Samedi nei sobborghi di Port-au-Prince ma da qualche sceneggiatore a corto di idee in un loft di Hollywood.