Collezionando recensioni,
ovvero perchè abbiamo bisogno della merda d’artista


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Per parlare di Collezionando la prendo alla lontana, un po’ perchè il buon Mastro Stout ha già dato ampio risalto ai dettagli della nostra gita lucchese ma un po’ anche per evitare i suoi strali a causa dei miei astronomici ritardi nelle pubblicazioni dei post. Parto perciò da una breve recensione a Ratatouille che avevo fatto tempo fa su la covata malefica. L’oggetto del post in pratica era la presa di posizione di uno dei personaggi, l’implacabile critico culinario Anton Ego, nei confronti delle critiche negative e in particolare delle stroncature, colpevoli di non tenere in considerazione della passione e del cuore che gli artisti mettono in gioco in ogni loro opera. Non voglio adesso rinnegare le parole di apprezzamento usate da me in quell’occasione verso la posizione coraggiosa presa dalla Pixar. La critica, in molti casi, è ancora un’inutile gara a stroncare, viene esercitata in maniera non costruttiva e non riesce quasi mai a cogliere lo zeitgeist se non dopo molto tempo, accodandosi in maniera pecoreccia alla moda del momento. Il famoso detto arbasiniano (ringrazio ancora oggi l’alunno Proserpio per aver condiviso con me tale perla di saggezza), secondo cui in Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “brillante promessa” a quella di “solito stronzo”; soltano a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro” , è l’esatta rappresentazione delle malefatte della critica nel nostro paese.

Nel corso degli anni però la mia posizione si è un po’ modificata, si è assestata, proprio come succede alle case. A Collezionando poi ho assistito ad una conferenza sul ruolo della comunicazione sui social network e dei blog specializzati sul mercato del fumetto italiano, sui modi che questi mezzi hanno di interagire direttamente col pubblico e sulle prospettive che possono avere in futuro. L’idea dominante emersa dal dibattito è la repulsione verso ogni atteggiamento negativo che possa provenire da parte del pubblico dei lettori e pure in fase di critica, al punto tale che è emersa una posizione del tipo “preferiamo passare per marchettari, recensendo solo i fumetti che ci sono effettivamente piaciuti, piuttosto che perdere tempo a rovesciare livore nei confronti degli altri”. E’ una posizione legittima e che ho ritrovato in maniera abbastanza sovrapponibile nel libro di Nick Hornby Una vita da lettore, raccolta degli articoli scritti per la rivista The Believer (che ha tra le proprie regole il divieto alla stroncatura). Per venire incontro all’esigenza imposta da questa regola Hornby cambia il proprio modo di scegliere i libri da leggere e recensire, e tende perciò a scegliere libri che pensa possano avere buone chance di piacergli (aiutandosi con recensioni di amici, assecondando il suo temporaneo interesse per un determinato argomento o dando fiducia ad autori di cui aveva già letto libri che gli erano piaciuti). Effettivamente buttata giù in questa maniera questa è la soluzione ideale sia per Nick Hornby (e per i redattori dei siti dei fumetti), che riescono a evitare di passare troppo tempo leggendo cose brutte, e per gli autori che, nel peggiore dei casi, evitano di venire mortificati nelle loro ambizioni artistiche. E mettiamoci pure un sospiro di sollievo per le case editrici che sono interessate del lato economico della faccenda. Però in questo discorso manca totalmente un quarto invitato al tavolo: il lettore. Mentre leggevo Hornby, ricordando il dibattito lucchese, pensavo al fatto che in un certo senso questa regola di non stroncare mi toglieva la possibilità di leggere Nick Hornby recensore nella sua interezza. Posso sapere cosa piace ad Hornby ma non cosa lo disgusta. E perchè? Io conosco Hornby come scrittore e so che può essere molto caustico, al limite del cinismo in alcune pagine. Perchè mi viene negata la possibilità di accedere a questo lato della sua figura di recensore? Non che non mi faccia piacere leggere recensioni positive naturalmente, ma esse sono solo una parte di quello che Hornby, o un recensore di siti come Comicus, Fumettologica o Spaziobianco può esprimere. Non abbiamo più bisogno di nuovi Vincenzo Mollica.

Poi c’è un altro lato della faccenda che mi fa storcere ugualmente il naso, e che ritengo forse ancora più importante e quindi grave in questo discorso. Butto lì delle ovvietà: il mondo non è fatto solo di cose belle, se lavori nell’ambito artistico devi accettare il fatto che il talento non è distribuito in maniera uniforme, che i mezzi per produrre un’opera sono diversi (anche economicamente) e alcuni accedono a possibilità che altri non hanno. La realtà è così putroppo. L’arte però riesce sempre a rivoluzionare la realtà perché questi aspetti passano in secondo piano rispetto al gusto di ognuno di noi. Si può arrivare ad accettare il fatto che ci siano dei canoni oggettivi di bellezza che guidano i nostri gusti, ma ognuno di noi per fortuna vede il mondo, comprese le opere d’arte, in modo diverso. Certo non è compito del critico raccontare questa diversità né far finta che essa non esiste, il suo lavoro è raccontare il suo modo di vedere le opere. Sarò io lettore a tirare i conti di questa diversità. Se sono intelligente ne uscirò accresciuto culturalmente altrimenti sarò un altro coglione che scrive commenti da cerebroleso su un blog. Ma, per favore, non cercate di convincermi che viviamo in un mondo in cui a tutti deve piacere “Gatto Mondadory” o “Anubi” perché altrimenti se non ti piace sei dalla parte di quelli fermi, di quelli retrogradi, di quelli che non ne capiscono niente di fumetto.

Non è mai successo a quelli che scrivono recensioni di dire a qualche amico che quel fumetto (o libro, o film, o serie) che ha osannato proprio non gli piace, anzi che è proprio una merda? Ok l’amico ci rimane un po’ male, e allora? Smette di esserti amico per questo? Che forse smetto di essere un estimatore di Hornby se scopro che odia Akira? Certo mi dispiacerebbe, ma preferisco un critico che mi propone la sua personale mappa fumettistica (o letteraria), con segnate le zone da evitare come la peste e l’indicazione invece di quelle da vedere assolutamente. E il bello è proprio sovrapporre la tua mappa con quella degli altri. Altrimenti quello che ci aspetta nel migliore dei casi è un conformismo noiosissimo dove tutti guardano le stesse cose “belle”, oppure un’abominevole hipsteria (tutti anticonformisti alla stessa maniera). D’altronde la targhetta di brutto non per forza deve essere equivalente a quella di “non importante”. Quanto trash cinematografico è diventato di culto? Quanti film di merda italiani degli anni ’70 hanno contribuito a fertilizzare un movimento underground di riscoperta che poi ha sfornato un regista come Tarantino? Quanta musica per discotecari della riviera adriatica hanno ascoltato i dj milionari di oggi? Diciamolo una volta per tutte, come in ogni orto, anche nel mondo dell’arte per arrivare alle primizie serve anche tanta merda.

Per concludere ritorno con un esempio in quel di Lucca. A Collezionando una delle esposizioni, intitolata “Quelli del ‘66”, mostrava albi di collane nate cinquant’anni fa. Ebbene due di quelle collane consistevano in un paio di pseudo-pornazzi come Isabella e Genius. Si tratta chiaramente di fumetti men che mediocri e sono sicuro che non troveremo mai nessuno che ci illustrerà ineguagliabili pregi artistici che solo Isabella può vantare, eppure entrambi sono lì. Sotto le teche benedette della capitale italiana del fumetto. Due fumettacci di mezzo secolo fa esposti ad una mostra sul collezionismo e nessuno giustamente ha niente da ridire, nemmeno io, perchè la loro importanza va oltre il fatto che siano brutti. Sono come la merda d’artista di Manzoni: è arte, certo, possiamo metterla in un museo, possiamo batterla all’asta e farci addirittura un convegno attorno. Però, nonostante tutto, resta merda.


Il ciondolo di Pollyanna: il brutto e il bello della vita


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In una scena del film Pollyanna del 1960 la piccola sobillatrice protagonista distrugge moralmente il reverendo Ford (Karl Malden) con una sola frase, lasciandolo piangente e in ginocchio, in preda ai rimorsi e alle convulsioni del suo animo lacerato. In realtà la piccola strega non è del tutto colpevole, la formula magica così portentosa era stata fatta incidere dal padre di Pollyanna sul ciondolo che la bambina portava al collo e, nonostante fosse stato anch’egli pastore, non si trattava di un passo delle sacre scritture. La frase era infatti una massima di Abraham Lincoln che recitava “Quando vai in cerca del male nel genere umano aspettandoti di trovarcelo, senza meno lo troverai”. Colpito dalla bellezza della citazione Roy Disney, in occasione dell’uscita del film, fece incidere la frase su migliaia di ciondoli che vennero posti in vendita a Disney World. Poco dopo lo sceneggiatore e regista del film, David Swift confessò che in realtà l’aforisma non era affatto di Lincoln ma se l’era inventato lui appositamente per il film. A quel punto il Disney meno furbo non potè che far ritirare tutte le medagliette. La citazione però resta bella e mi piace pensare che sia un ottimo punto di incontro tra la necessità di recensire anche con durezza gli orrori dell’offerta multimediale ma senza diventare troppo pessimisti. Quindi per citare un’altra frase che non ha detto Lincoln, “Spera nel meglio ma preparati al peggio”, diciamo: sparliamo del peggio ma parliamo anche del meglio.

Film

Il peggio
Mastro Stout: senza alcun dubbio seleziono il film veneziano con Jolie e Depp: “The Tourist”. In una frase: “La sagra dell’umorismo involontario!”. Vedere Frassica in versione carabiniere cadere in acqua come un ebete è puro trash da cinema chiappa&spada dei ‘70/’80 (ma all’Arma che avranno detto di ‘sta scena penosa?). Son sicuro che l’anima della meravigliosa città co-protagonista di questa pellicola inguardabile e vergognosa piange al ricordo di essere stata calpestata da tali “divi”. E piangono anche i portafogli di tutti gli sventurati che, come me, hanno avuto la sfortuna di andare a vederlo in sala.

duffogrup: Ebbene sì! Lo ammetto, sono uno dei pochi eletti. Uno dei pochi che possono (s)fregiarsi di aver visto al cinema Il silenzio dei prosciutti di Ezio Greggio. Solo la più cupa disperazione di solitario studente fuori sede, mista alla più estrema disattenzione davanti alla biglietteria, poteva portare qualcuno a perdere quasi due ore della propria vita in una sala cinematografica per assistere a quella rappresentazione del vomito su pellicola ed a pagare per farlo. Ezio Greggio, non è mai stato un regista. Non è mai stato nemmeno un comico, in quanto è incapace di generare la benché minima risata. Dai tempi de La Sberla prima e di Drive In poi, l’unica cosa dignitosa che ha fatto è stata la spalla ad un Gianfranco D’angelo da minimo sindacale. C’è qualcosa di incredibile e misterioso che si nasconde dietro a Il silenzio dei prosciutti e in generale a quel periodo della carriera di Ezio Greggio che lo portò a raggranellare abbastanza soldi per andare in America a girare film con Mel Brooks. Di certo un film sulla vita di Ezio Greggio e sui suoi film sarebbe un film drammatico, probabilmente cattivo e disperato. Di sicuro non farebbe ridere.

Il meglio
Mastro Stout: In questo caso, a consigliarmi, è il mio bisogno di catarsi cinematografica. Pongo da sempre grandi speranze (consolatorie) nel buon vecchio cinema western, in quelle buone vecchie pellicole nelle quali ogni torto veniva corretto dai sibili (e soprattutto dagli effetti) dei proiettili, spesso esplosi da character dall’indubbio fascino maudit, che spesso si ponevano a cavallo – gioco di parole non studiato – tra le categorie dogmatiche del bianco e del nero, del Bene e del Male, sorta di compartimenti stagni che, proprio per l’azione dei capolavori di questo genere, hanno iniziato prima a vacillare, quindi a sfaldarsi, perdendo le loro stolide certezze. Ogni qual volta guardo una valida pellicola western, cosa purtroppo rarissima negli ultimi decenni, la fiammella della speranza in un mondo non dico migliore ma certamente più giusto si riaccende inesorabilmente. Se devo citare un titolo, e non volendo essere troppo banale indicando l’inarrivabile Trilogia del Dollaro leoniana, dico con malcelata sicurezza “3:10 to Yuma” (da noi, “Quel treno per Yuma”) di James Mangold con due eccezionali Russell Crowe e Christian Bale. Già veder duellare il Gladiatore e Batman vale l’ideale biglietto.

duffogrup: Un titolo sugli altri non riesco a sceglierlo. Preferisco nominare Cristopher Nolan, il regista che più di ogni altro ha colto la mia attenzione negli ultimi anni senza mai deludere le attese. Nolan è sicuramente il più classico dei registi contemporanei se per classicità si intende l’abilità di usare le inquadrature ed il montaggio per ingabbiare lo spettatore nella trama che è e rimane la parte più importante del film. Anche a costo di ingannarlo come in The Prestige oppure di costringerlo a complicate ricostruzioni, Memento, Nolan porta il pubblico a provare emozione per i personaggi e le loro storie. Nei tre Batman, in Inception e anche in Interstellar (anche se questo titolo soffre un po’ il confronto con gli altri per una sceneggiatura troppo tirata per i capelli in alcune parti) sono i personaggi, soprattutto quelli secondari e minori che lasciano il segno più che gli effetti speciali.

Serie tv

Il peggio
Mastro Stout: un po’ mi spiace dirlo ma davvero “The Big Bang Theory” non mi ha mai preso, anzi. E mi ci ero messo di buzzo buono! Nulla da fare. Tutti questi sbandierati riferimenti alla cultura nerd/geek, amatissima da Duffo, Alunno Proserpio e il sottoscritto, mi sembrano davvero limitati, per fare un paio di esempi, al fatto che i character vestano la maglietta col logo di un noto supereroe oppure posizionino in casa, rigorosamente sullo sfondo, qualche action figure. Senza menzionare il fatto che, suvvia, ma in quale mondo personaggi simili riuscirebbero a mettersi (anche solo a uscire una sera) con delle gnocche come Kaley Cuoco?! Capisco la finzione cine-televisiva ma qui si esagera! La sitcom mi sembra proprio una fiaba a uso e consumo di certo pubblico americano.

duffogrup: Qualsiasi fiction di RAI e Mediaset. A partire dagli anni ‘80, con la nascita della tv commerciale italiana, e progredendo terribilmente nei ‘90 e nel XXI secolo, la competizione al ribasso tra RAI e Mediaset ha condizionato in negativo la capacità di sfornare prodotti degni di essere trasmessi. Proprio quando all’estero il formato serie costruiva attorno a sé quel fascino nei confronti degli addetti ai lavori e quel consenso di critica che stanno dando tanti frutti oggi, in Italia ci si circondava di marescialli, medici in famiglia, improbabili squadre di polizia, cesaroni e don mattei. Il disastro di queste serie è sia di natura tecnica che artistica. Ma non do la colpa del tutto alla produzione, in tutto questo tempo il pubblico del duopolio è stato il peggior nemico di se stesso, premiando con gli ascolti di volta in volta la risata più becera, la lacrima più facile o l’intuito più insulso. La stessa lodevole eccezione costituita dalla messa in onda de Il commissario Montalbano nel 1999 si è incartata su se stessa con la riproposizione episodio dopo episodio gli stessi stereotipi e macchiette (parlo di personaggi ma anche di “paesaggi”), lasciando a Sky il ruolo di ancora di salvezza della fiction di qualità italiana.

Il meglio
Mastro Stout: Più che un singolo titolo, opterei per una neo-corrente cine-televisiva: le produzioni made-in-Netflix e, più specificatamente, quelle legate all’Universo Marvel. Dopo un paio d’anni di produzioni, il bilancio, penso si sia tutti d’accordo, è assolutamente positivo. Lasciamo perdere il discorso delle categorizzazioni tanto care ai mondi del piccolo e grande schermo (sono telefilm? Mini-film? Rimpiazzeranno i film di supereroi al cinema?) e parafrasiamo semmai le domande che giungevano alla redazione della benemerita Editoriale Corno ai tempi della prima ondata di supereroi Marvel in Italia. È migliore “Jessica Jones” o “Daredevil”? Giochiamo pure così, lo stan facendo un po’ tutti i Marvel Zombies e non che seguono queste serie ma ha davvero importanza? Ovviamente no, nessuna. Almeno fino a quando la qualità media di queste opere resterà di un tale livello. Cresciuto leggendo centinaia di albi della Publisher House newyorchese, ho potuto finalmente smettere di sognare di adattamenti professionali di questi eroi. Il sogno si è infine realizzato.

duffogrup: Ho appena scritto che Sky è l’unico produttore italiano di serie di qualità. In effetti Romanzo Criminale, Gomorra e 1992 (da un’idea di Stefano accorsi) hanno ricevuto tutte entusiastiche recensioni e ottimi dati di ascolto. Ma quella che secondo me è la vera perla estratta dal cilindro italiano di Murdoch è una serie comica: Boris. La serie del pesce col nome da tennista è riuscita dove nessuno ce l’aveva fatta dai tempi di Fantozzi, far ridere in maniera cinica e senza compromessi mettendo alla berlina non tanto il politico di turno, quanto l’italiano medio (nel caso di Boris l’intera troupe de Gli Occhi del Cuore). Prendere per il culo i più deboli non è bello, ma guardando Boris cominci a pensare che in fondo furbi, impostori e paraculati non si trovano solo nelle stanze dei bottoni. Oltre a questo Boris ha il merito di aver creato uno dei più grandi personaggi del panorama comico italiano dell’ultimo decennio: il regista Renè Ferretti di Fiano Romano.

Fumetti

Il peggio
Mastro Stout: Opto per “Nathan Never”, quella che poteva diventare LA serie italiana di fantascienza a fumetti e che invece, man mano che gli episodi si accumulavano negli anni, s’è tristemente rivelata un insieme sparso di citazioni-scopiazzature di diversi anime giapponesi, quali, su tutti, “Kidoo Senshi Gandamu” e “Shin seiki Evangerion”. Peccato, davvero. La serie ha comunque l’indubbio merito di aver fatto conoscere al grande pubblico e aver contribuito a lanciare nell’empireo dei disegnatori artisti italiani del calibro di Claudio Castellini e Roberto De Angelis.

duffogrup: Scelgo Orfani della Bonelli. Non ho nulla contro Roberto Recchioni e nemmeno contro la volontà di portare dei cambiamenti in Bonelli coincisa con la sua venuta nella casa di Tex. Anzi, come abbiamo già scritto Mastro Stout ed io, la crisi del fumetto popolare italiano è dovuta essenzialmente alla crisi di creatività iniziata con la dipartita da Dylan Dog di Tiziano Sclavi ed esplosa drammaticamente dopo la morte di Sergio Bonelli. Detto questo io sono dell’idea che non si risponde in questo modo a questi problemi. Non con un fumetto che sembra vecchio già alla partenza, pieno di stereotipi e dalla trama scontata. C’è il colore certo, che (incredibilmente) per una serie Bonelli nel 2016 è una grande novità, ma c’è un’idea estetica un filo originale? Ci sono frasi ad effetto certo, ma c’è un’epica che si discosti un minimo dallo scopiazzare film e serie tv americane? No. Per rinnovare il fumetto americano negli anni ‘90 hanno preso i vecchi supereroi e li hanno letteralmente distrutti. Forse era il caso di provarci anche da noi.
PS: menzione d’onore per Unità Speciale, perché il fumetto dei Carabinieri non deve essere dimenticato. Se non ci fosse un chiaro sforzo propagandistico dell’Arma dietro questa pubblicazione sarebbe realmente incomprensibile il motivo che ha permesso ad una tale schifezza di arrivare fino alle edicole. Storie ridicole e disegni urendi e neanche un’oca come la Arcuri a mostrare ogni tanto l’armamento di ordinanza. Da tramandare ai posteri perché inorridiscano pure loro.

Il meglio
Mastro Stout: Taniguchi-sama realizza da sempre dei manga che gli ammeregani definirebbero “larger than life”. Opere poetiche, intrise di una malinconia onnipresente ma godibilissime da qualunque lettore, in ogni fase della propria vita. Penso che quasi mai una lettura mi abbia regalato tanta serenità quanto due suoi titoli, “L’uomo che cammina” e “Gourmet”, storie che ruotano attorno a episodi in puro stile slice of life di protagonisti assolutamente normali, aggettivo che in questo caso non ha alcuna accezione negativa. Potrei benissimo essere io l’uomo che passeggia per le strade giapponesi in compagnia del suo cane così come Duffo e Proserpio potrebbero certamente identificarsi con l’individuo che assaggia diversi piatti della tradizione culinaria nipponica, in una sequenza di situazioni estremamente quotidiane ma che mai appaiono grigie o monotone, raccontate con rara eleganza di tratto e di toni. Se non possono donare un po’ di speranza e gioia nella vita questi due manga, non so davvero quali fumetti lo possano fare.

duffogrup: Questa scelta è forse la più difficile. Non vorrei dover andare troppo indietro per trovare un fumetto che si adatti all’idea di migliore o tra il meglio della categoria. Però questo è un periodo strano, mai come adesso infatti, soprattutto nel settore della graphic novel, c’è stata una tale quantità e varietà di opere. Tra quelle che ho preso e quelle che mi sono state regalate tutte sono molto belle e piacevoli da leggere. Di certo si respira un aria molto più fresca tra i romanzi a fumetti piuttosto che tra gli scaffali dei fumetti popolari in edicola. Eppure quello che è venuto un po’ a mancare in questi anni è l’opera ammazza tutti. Un Maus del 2010 per intenderci. Oppure un autore che concentrasse su di sé le figure del grande disegnatore, grande sceneggiatore e grande mescolatore di entrambi come era per esempio Will Eisner. A questo punto ho deciso di scegliere come fumetto Dropsie Avenue proprio di Will Eisner, una delle prime graphic novel che lessi. Dropsie Avenue ha la consueta forza narrativa di Eisner e, dopo vent’anni dalla sua pubblicazione, è ancora attualissimo e dovrebbe essere imparato a memoria, tavola per tavola, da chi vuole mettersi a fare graphic novel di mestiere.

Libri

Il peggio
Mastro Stout: qui son proprio in difficoltà e immagino non valga menzionare testi universitari 😉 Mi tuffo e dico “La luce di Orione” di Valerio Evangelisti. Non comprai io questo romanzo ma mi venne regalato. Prima di esso, non avevo letto nulla dell’autore, e questo rappresentò il problema principale della mia difficoltà a comprendere e apprezzare appieno un universo narrativo (peraltro non lineare) che contava già sulla bellezza di 10 capitoli. L’opera in oggetto rappresentava infatti il penultimo tassello del ciclo letterario dedicato al personaggio dell’inquisitore Eymerich. Dovendomi quindi immergere in medias res e ignorando del tutto il già narrato, l’impatto fu tutt’altro che semplice e mi gustai ben poco la vicenda, comunque ben scritta e contenente dei cliffhanger discreti.

duffogrup: La parola mattone usata nei confronti di un libro riesce nell’impresa di racchiudere in un solo termine tre caratteristiche distinte: la forma, lo spessore e la pesantezza della lettura. A Drood di Dan Simmons mattone si adatta benissimo. Da fan di Charles Dickens le storie lunghe non mi spaventano. I romanzi di Dickens però, a differenza di quelli moderni, erano costruiti sulla base di capitoli pubblicati perlopiù su riviste settimanali. La necessità di tenere alta l’attesa era fondamentale per cui Dickens faceva spessissimo ricorso al cliffhanger tra un capitolo e l’altro, secondo il precetto dell’amico Wilkie Collins “Falli piangere, falli ridere ma soprattutto falli aspettare”. Drood è un romanzo che ricostruisce in maniera perfetta la Londra vittoriana e nelle prime pagine questa atmosfera ti avvolge in maniera convincente. Però arrivato a metà del libro, nonostante tutto il mistero della vicenda, ti accorgi che in realtà Drood è estremamente noioso e prolisso. In una parola un mattone di 830 pagine. Arrivato a tre quarti ti chiedi finalmente perché continuare a leggere Drood quando puoi usare meglio il tempo per leggere uno qualsiasi dei libri di Charles Dickens.

Il meglio
Mastro Stout: So di rischiare d’esser banale e, cosa personalmente ancor più temuta, gli strali dei colleghi di blog ma dico “Siddharta” di Hermann Hesse. Ho letto questo piccolo grande libro tantissimi anni fa e chissà se oggi come oggi sarebbe in grado di darmi la stessa carica di tranquillità di allora, di ricaricare le mie stanche batterie. Immagino, e temo, di no, in quanto sono molto più vecchio di allora e, soprattutto, molto più acido e disilluso verso la vita. All’epoca però… che lettura!

duffogrup: Devo dire che negli ultimi anni di non molti libri ho caldeggiato la lettura a destra e a manca quanto Ready Player One di Ernest Kline (suggeritomi dal sempre prezioso alunno Proserpio). Per quanto il libro venga costantemente indicato come destinato principalmente a nerd quarantenni, gli unici a quanto pare che possano recepire i continui rimandi alla cultura pop degli anni ‘80, io sostengo l’esatto contrario. Poche volte infatti mi sono trovato davanti ad un universo narrativo così vario e coerente adatto ad un pubblico trasversale. Kline va oltre il raccontare la lotta di un teenager contro la realtà distopica che lo circonda, come succede invece nei vari Hunger Games e Divergent, bensì crea due universi ben distinti separati da un visore di realtà virtuale. La metafora dell’immaginazione è evidente. Kline esalta l’immaginario dei ragazzi di allora trasferendolo a quello di oggi e, nonostante il mondo reale resti il luogo imprescindibile dei contatti e dei sentimenti, il virtuale non è mostrato come un luogo oscuro, misterioso e pericoloso, bensì come un posto fantastico dove tutti possono cercare e trovare la fantasia che più li aggrada e li rappresenta.

Videogiochi

Il peggio
Mastro Stout: Piccola premessa: non son mai stato un grande videogiocatore, specie in gioventù. Ammetto però che l’avvento della PS3 mi scaraventò con una certa virulenza nel vortice dei videogames, finendo per comprare anche un paio di giochi in edizione limitate e deluxe. Il mio cruccio più grande è molto probabilmente legato a “Star Wars: The Force Unleashed”, che qui citerò più che altro per ripicca. La storia? Impersonare il discepolo (ribelle) di Lord Vader, e ho detto tutto. Il gameplay? Non all’avanguardia ma assolutamente onesto e divertente, di livello medio/alto. Il marchio Star Wars, poi, era ed è una discreta garanzia. Ebbene, qual è dunque il problema? Presto detto. Un paio di livelli str#*§issimi che mi fecero rallentare così tanto al punto da abbandonare definitivamente il gioco quando il traguardo era molto vicino. Ricordo ancora le ore spese online a cercare, tramite i tutorial di altri fan, il modo migliore (ovvero l’unico) per abbattere un fottutissimo Star Destroyer. L’unica cosa che mi rallegrava in quei momenti bui erano i commenti di giocatori di tutto il globo che, tra un insulto e l’altro, asserivano sostanzialmente la stessa cosa: ma perché cavolo creare livelli tanto difficili in un gioco altrimenti fluido e che tutto voleva essere tranne che un parente di “Demon’s Souls”?

duffogrup: Spore. Una delle più grandi delusioni videoludiche della mia vita. Will Wright è l’autore di un gioco plurigenerazionale come Sim City e di The Sims, il primo simulatore di vita giocabile e divertente. Naturalmente il termine simulazione è sempre frainteso quando si parla di giochi come questi. Se prendiamo come punto di riferimento un simulatore di volo, il termine simulazione sta a Sim City e The Sims come Katy Perry sta alla musica: c’è un’idea grossolana di fondo ma una magnifica confezione che la circonda ed è con quella che ti piacerebbe giocare. Una simulazione molto approssimata ma divertente con cui interagire insomma. Quando si seppe che proprio Will Wright nel 2008 avrebbe sfornato un simulatore di evoluzione l’attesa era veramente alta soprattutto perché, a quel che si diceva, il gioco avrebbe dato la possibilità di sostituirsi alla natura plasmando forme di vita originali, le quali avrebbe impattato nell’universo in maniera del tutto diversa le une dalle altre. Ma così non fu. Il gioco, che graficamente era uno spettacolo per gli occhi, procedeva praticamente nello stesso modo ad ogni partita, che si creasse un gigante bipede dal collo oblungo piuttosto che una specie di granchio dalla mascella ultradentata e sei mani con pollici opponibili. L’evoluzione mancava totalmente delle sue componenti fondamentali, la selezione naturale delle caratteristiche e l’adattamento degli organismi all’ambiente. Nessuna conseguenza delle scelte effettuate durante il gioco, solamente un grandioso editor di creature, palazzi e mezzi per appassionati della personalizzazione feroce.

Il meglio
Mastro Stout: Se vogliamo parlare di emozioni, di batticuori, di sogni a occhi aperti (e pure chiusi), la mia testa, il mio corpo, le mie mani, tutto me stesso insomma, vanno in brodo di giuggiole per l’unico e solo “Mass Effect” (ok, è una trilogia ma qualunque capitolo scegliate, cadrete magnificamente). Al solo ricordo di quelle opere mi scende una lacrima, anzi, facciamo più di una. “Mass Effect” è davvero tutto quello che ho sempre desiderato in ambito videoludico: un mix unico e riuscitissimo di componenti RPG e action, con elementi romance e una buona percentuale di free roaming. Un gioco non vivace ma vivo, i cui protagonisti – alla fine ci si affeziona all’intera ciurma spaziale che Shepard deve guidare, non solamente a lui/lei – io lo so, diverranno reali, carne e sangue in un lontano futuro. Certo, avranno altri nomi e magari armi differenti ma saranno questi novelli Capitan Futuro a girare per il cosmo e a lottare in esso e per esso. Purtroppo non vivrò quell’epoca ma posso accontentarmi al pensiero che, entro fine 2016, giungerà il quarto capitolo della saga. Quel giorno nel mondo si tornerà a sognare di più.

duffogrup: Chiudo parlando di speranza. Perché il gioco di cui voglio parlare non è ancora uscito ma sarà in vendita da giugno. Trattasi di No Men’s Sky, un gioco di esplorazione spaziale, commercio e catalogazione naturale. A detta degli sviluppatori No Men’s Sky promette di essere un gioco molto diverso da quello a cui siamo abituati. Un gioco in cui non ci saranno trame complicate, incursioni in modalità stealth o sparatorie continue, ma principalmente ci sarà da esplorare un’infinità di mondi. E infinito in questo caso non’è una parola buttata lì per caso, perché si parla letteralmente di miliardi di miliardi di pianeti creati tramite funzioni matematiche che si mescoleranno in maniera casuale. D’altronde se perfino quel truzzo di Kirk poteva permettersi di partire per strani, nuovi mondi, perché non possiamo farlo anche noi?


Star Wars, il risveglio della forza: Life on Jakku?


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La prematura dipartita di David Bowie, starman per eccellenza, mi dà lo spunto di partenza per dire la mia sul Star Wars di J. J. Abrams e partecipare all’ottimo e proficuo dibattito divampato all’interno di Dead Parrot.
So di lanciarmi in un parallelismo un po’ forzato e che può apparire eccessivamente cinico, ma trovo che la storia della carriera di David Bowie dovrebbe essere presa a paragone quando si deve analizzare l’evoluzione di un franchise mediatico talmente di successo da poterlo definire leggendario. A parte Mollica, che al TG1 si è sentito in dovere di ricordare a tutti gli italiani l’esistenza del film Il mio west (pieraccionata che vantava nel cast, oltre “al sempre bravo” Bowie, anche Alessia Marcuzzi e Harvey Keitel, in una grande performance alimentare), nei tanti coccodrilli che si sono seguiti sono state rimarcate molte banalità. La più diffusa è stata sicuramente quella riguardante la poliedricità artistica di Sir David Robert Jones, capace di oltrepassare le decadi cambiando se stesso abbastanza da essere spesso considerato un anticipatore di tendenze. Intendiamoci, è vero: nell’arco di quindici anni, dall’uscita di Space Oddity a Let’s Dance, nel mondo della musica mai nessuno come Bowie ha interpretato tanti personaggi così diversi tra loro. Ma se ci soffermiamo con un po’ di attenzione sulla musica, piuttosto che sul trucco e il taglio di capelli, possiamo tranquillamente dire che in realtà il suo stile non è cambiato, almeno non al punto da diventare irriconoscibile.

Il suo avvicinamento a sonorità nuove è sempre stato strumentale alla produzione di musica bowiana, in particolare durante la citatissima esperienza berlinese con Brian Eno. Guardando il documentario della BBC Krautrock: The Rebirth of Germany, David e Brian appaiono più come degli avventurieri capitalisti che arrivano in un nuovo territorio e utilizzano le guide locali per sfruttare le risorse del luogo e poi fuggire via in cerca di altri posti da spremere più che degli artisti giramondo in cerca di nuove esperienze. Però, ed è proprio qui che volevo arrivare, la grandezza della storia di un artista è anche nel rendere plausibile una narrazione di questo tipo al pubblico, facendogli dimenticare che in realtà non sta ascoltando un esponente d’avanguardia della musica tedesca ma uno dei campioni della musica commerciale mondiale. Per decadi Bowie è stato, e continuerà sicuramente ad essere, un fenomenale esempio di marketing. Un’azienda da 140 milioni di dischi venduti. Una macchina che, oltre a lasciarci grandi canzoni, ha indicato una strada per il successo: cambiare per dare l’idea al tuo pubblico di essere vivo e vitale ma rimanere se stessi quel tanto che basta a far riconoscere il tuo brand.


Possiamo dire che Star Wars ha preso la stessa strada? Evidentemente no. Ma allora, alla luce di quanto detto a proposito dell’epopea del Duca Bianco, come spiegare il clamoroso successo al botteghino e nei commenti di un film come Star Wars, il risveglio della forza che, come ha giustamente sottolineato Mastro Stout, altro non è che un quasi-remake del film originale del 1977? L’unica spiegazione che mi sento di azzardare è che è avvenuto un profondo mutamento nel pubblico, nel modo che esso ha di accettare in maniera acritica, quasi fosse composto da zombie, quello che l’industria dell’intrattenimento cinematografico gli propina. Star Wars di Abrams non è un brutto film, anzi è uno spettacolo per gli occhi ma accettare Rey come una versione patinata e politically correct del vecchio Luke significa, da spettatore, dimenticarsi che questo film dovrebbe essere la continuazione di una trilogia precedente (se non due) e significa anche tradire la storia che quella trilogia ha raccontato e che per tanto tempo hai ammirato. Sarebbe come se Bowie negli anni novanta, col mutuo da pagare sulla villa a Malibu ma truccato perfettamente alla vecchia maniera, se ne fosse uscito con The Return of Ziggy Stardust e avesse sfornato un disco eccellente, pieno di belle canzoni, e i fan avessero semplicemente accettato con gioia quella riesumazione fuori tempo massimo: “Caro David ti paghiamo per non cambiare”. Non sarebbe mai potuto accadere.

Chiaramente non si poteva chiedere ad Hollywood di fare finta per troppo tempo che un franchise come Star Wars non esistesse. Star Wars farebbe guadagnare anche se girato alla maniera di Georges Melies. Il punto è che la discesa in campo di un gigante conservatore come la Disney ha sparigliato le carte rispetto ai decenni precedenti. Prima ai folli visionari come George Lucas e Steven Spielberg che facevano incassare l’industria del cinema si contrapponevano registi altrettanto geniali e folli che rischiavano di far chiudere bottega (Michael Cimino su tutti). Vi era in un certo senso un equilibrio del terrore basato sul fatto che gli autori contavano tanto nella realizzazione di un film, nel suo successo o nel suo fallimento. Hollywood e Disney hanno deciso chiaramente di non voler rischiare più e, per evitare ogni problema, hanno semplicemente tolto la genialità/follia dal piatto della partita mettendo al timone della barca uomini tecnicamente validi e di fiducia, non a caso per Star Wars hanno scelto il miglior mestierante in circolazione. Il pubblico, nella sua componente di massa, è diventato il vero autore di quelle storie scialbe e prevedibili. A differenza del pubblico che bramava le trasformazioni di Bowie, quello che si affolla nelle sale per Star Wars non desidera “ch-ch-ch-ch-changes”, gli basta un grandioso battage pubblicitario. I veri sconfitti di questa rivoluzione nell’industria cinematografica sono gli autori, e in particolare gli sceneggiatori dei film popolari che ormai partoriscono figli non loro, stracolmi di umorismo da quattro soldi e privi di qualsiasi vera drammaticità, Le serie prodotte dalla vecchia televisione e dalle nuove web tv hanno ormai un diritto di prelazione per quanto riguarda innovazione produttiva, solidità della trama, coraggio degli autori e carisma di personaggi (su tutte True Detective). Un personaggio come Finn (il Jar Jar Binks di Abrams) con le battute, i versi e le facce da cabarettista di terza classe su Tatooine e l’uso di oggetti di scena dall’aspetto familiare, come la statua di sale utilizzata al posto di Carrie Fisher per le riprese, non fanno altro che rafforzare la mia idea che questo ormai non è più uno Star Wars per veri starmen.


Dead Parrot’s “Thats ’70s” Christmas Compilation


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Lee Perry – Disco Devil (1977)
Althea and Donna – Uptown Top Ranking (1978)
Curtis Mayfield – Pusherman (1972, Superfly soundtrack)
Serge Gainsbourg – SS in Uruguay (1975)
Os Mutantes – Ave, Lúcifer (1970)
Sibylle Baier – Tonight (1973)
Alain Goraguer – Deshominisation (1973, La Planete Sauvage soundtrack)
Bruce Haack – Supernova (1970)
Pere Ubu – Non-alignment Pact (1978)
Robert Wyatt – Sea Song (1974)
Tangerine Dream – Betrayal (1977, Sorcerer soundtrack)
Ultravox – Hiroshima Mon Amour (1978)
La Düsseldorf – La Düsseldorf (1976)
Andrzej Korzynski – Rosa Rosa (1977)
Braen’s machine – Imphormal (1971)
Culpeper’s Orchard – Mountain Music Part 1 (1971)
XTC – Complicated Game (1979)


I Quiz del Dead Parrot: Cattivi!


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Credo ti sia capitato almeno una volta di parteggiare per un “cattivo” nell’ambito di qualche storia/saga. Fai un nome e dicci il perché della tua scelta di campo.

Mastro Stout A dire il vero, a me capita alquanto spesso, tranne forse nei videogiochi, ma solo perché in quel medium è davvero questione di “O lui, o me”, da duello western, insomma. Un nome su tutti? Darth Vader. Perchè? Perchè, semplicemente, è lui! ‘Nuff said, come dicono gli americani. Sarei il suo primo discepolo, cosa che del resto in parte è avvenuto, avendo in passato giocato alla saga videoludica “Star Wars: Il potere della Forza”.
alunno Proserpio Credo che il cattivo più affascinante sia Long John Silver dell’Isola del Tesoro. Il cuoco con una gamba sola, ex quartiermastro del Capitano Flint, pronto a capeggiare l’ammutinamento a bordo dell’Hispaniola, è un autentico bastardo, ma con la sua capacità di incantare con le parole e l’indubbio carisma risulta molto più simpatico di tutti i personaggi buoni del libro.
duffogrup Forse non riesco proprio a parteggiare per un villain, certo per diversi esponenti della categoria ho provato compassione per la loro triste condizione. Emblematico è il caso dell’androide Roy Batty/Rutger Heuer e il suo monologo finale sotto la pioggia, rimasto nella storia.

Parliamo di super criminali. Se dovessi rubare un super potere e un tratto distintivo da qualcuno degli innumerevoli villain dei comics USA (della serie: andare a rubare in casa dei ladri), di cosa ti approprieresti?

Mastro Stout Come super potere, direi l’abilità “fotografica” di Taskmaster, il più famoso trainer dell’universo Marvel, ossia il saper copiare precisamente qualsiasi tecnica di combattimento che il nostro vede in azione. Non lo dico per afflato di violenza fine a se stessa ma perché, come il character in questione, potrei poi aprire una scuola per creare ottimi lottatori, stile Tana delle Tigri, forse il (non-)luogo che maggiormente m’ha affascinato da piccolo. Quanto al tratto distintivo, dirò una banalità: l’enorme quantità di denaro di cui dispongono i grandi, vecchi villain delle Big Two, quali, tanto per fare un paio di esempi (e per par condicio), Dr. Doom e Ra’s al Ghul.
alunno Proserpio Per ottimizzare rispondo Sylar, il cattivo che nella prima serie di Heroes aveva il potere di rubare i superpoteri degli altri “eroi”.
duffogrup Al Loki cinematografico, che conosco più di quello fumettistico, invidio la divinità ma sicuremente ruberei altre caratteristiche: la capacità di manipolare gli altri a proprio piacimento, l’astuzia che spesso rischia di farlo vincere contro il fratello più forte ma stupido e la sfrontatezza di dire sempre la cosa adatta ad insultare sottilmente il suo interlocutore.

Ti è mai capitato di appassionarti a tal punto alle vicende personali di un cosiddetto villain, da arrivare a comprendere, in toto o almeno in buona parte, le sue motivazioni e i suoi progetti?

Mastro Stout Mi devo ripetere e (ri)cito la Testa del Demone, per il suo antico e mai sopito piano di riportare la Terra ai suoi antichi splendori, quando la Natura dominava nettamente sull’Uomo. Mutatis mutandis, è un concetto onnipresente nelle opere del buon Miyazaki Hayao. Certo, sui mezzi – la decimazione dell’umanità – tramite cui raggiungere un tale scopo ci sarebbe parecchio da discutere… Fossero almeno pronte le colonie spaziali!
alunno Proserpio Anche qua pesco (nel vero senso della parola) dalla letteratura marinaresca: il capitano Achab, con la sua folle ossessione per Moby Dick che condanna alla rovina il Pequod e i suoi marinai. Ma la furia prometeica che lo muove, il legame che lo porta ad identificarsi con la Balena Bianca, il suo chiamarsi fuori dal mondo dei mortali per inseguire la lotta contro il fato, i suoi monologhi biblici da predicatore infuocato ne fanno uno dei grandi personaggi romanzeschi di ogni tempo. Chiunque abbia il senso di una missione o di un’ossessione, chiunque si senta truffato dal destino, chiunque voglia riaggiustare la bilancia del fato, è un po’ un Achab in potenza.
duffogrup Direi che nella sua freddezza, nella sua spietatezza, nel suo essere assolutamente logico (fino a sembrare il parto di una mente vulcaniana), il piano che Ozymandias mette in pratica in Watchmen di Alan Moore può risultare spaventoso però, nella sua tragicità, è accettabile per una mente razionale soprattutto conoscendo quant’era la paura in quegli anni per un conflitto atomico. Solo Rorshach, la personificazione delle emozioni umane più profonde, reagisce veementemente contro questa macchinazione diabolica e salvifica allo stesso tempo. Da omuncolo non voglio condividerne la stessa fine, d’altronde che potrei fare se persino la divinità, Dottor Manatthan, nella sua inutile onnipotenza si schiera a favore di Mr. Veidt.

Ti svegli in piena post piomba dopo una nottata di bagordi e, ancora ubriaco, decidi di realizzare il tuo primo cosplay! Visto l’umore e il mal di testa, ti vestirai da… super cattivo! Quale sarà il tuo prescelto?

Mastro Stout Caro Duffo, anche rimembrando i nostri trascorsi di naja, direi Char Aznable, il celebre antieroe della saga di Kidō senshi Gundam 0079, il primo e più famoso di tutti i Gundam (e, senza dubbio, di tutti i cosiddetti Real Robot). La divisa sarebbe alquanto laboriosa da riprodurre e, considerata anche la pressa che sentirei al capo, la farei certamente realizzare a qualcuno/a. Vabbè, ho detto tutto ciò solo per citare uno dei personaggi di fantasia più tridimensionali, crossmediali e meglio sviluppati di tutti i tempi. Altro che il suo rivale, il piatto Peter Rei/Amuro Ray! Dalla parte di Char tutta la vita!.
alunno Proserpio Un sombrero e un gilettino coi lustrini, un paio di hamburger stracotti incollati alle guance per simulare le bruciature ed eccomi vestito da El Muerto, il memorabile cattivo sfigurato che quasi fece la pelle al buon Tex in un memorabile duello sulla Collina degli Stivali.
duffogrup Potendo metterei la suite degli Agenti di Matrix ma visto che, causa panzetta, finirei per somigliare più a Jake Blues che all’Agente Smith mi accontento dei vestiti larghi di Pennywise, trucco da clown compreso (e pure le zanne).

Tra le poche donne-villain di film, serie tv e fumetti di quale diverresti volentieri lo sgherro tuttofare?

Mastro Stout Mumble, mumble… non son poi così poche, specie nel mondo dei comics USA. Villain lo è stata agli inizi della sua carriera ma s’è “redenta” da tantissimi anni. Parlo della Regina Bianca del Club Infernale, Emma Grace Frost. Bionda, occhi azzurri, formosa,… gelida! ‘Nuff said.
alunno Proserpio Bisogna intendersi su quel tuttofare, ma direi che lavorare come assistente privato al servizio di Daryl Hannah, alias Elle Driver, alias California Mountain Snake, la killer con uno occhio solo nemica giurata di Uma Thurman in Kill Bill non sarebbe male. Dovrei imparare a fischiettare Twisted Nerve, affilare la katana e stirare la sua collezione di bende oculari, ma non sarebbe un sacrificio eccessivo.
duffogrup Direi la Mystica dei film di Brian Singer. Visto che pur tutta blu e squamosa avrebbe le forme di Jennifer Lawrence e/o Rebecca Romijn-Stamos e in più si potrebbe trasformare a piacimento (mio naturalmente) in qualunque altra bellezza terrestre e non, per farle da sgherro arriverei anche a lavare i piatti e tenere in ordine il nostro covo supersegreto.

Macchiavellici, superintelligenti e affascinanti. I cattivi più famosi di solito possiedono almeno una di queste caratteristiche ma ci sono anche tanti cattivi, stupidi, e particolarmente sfigati. Ne vuoi ricordare qualcuno?

Mastro Stout E’ vero, e il primo nome che mi sovviene è quello del povero Dick Dastardly, il villain protagonista della mitica serie d’animazione “Wacky Races” (chiamato anche, in alcuni adattamenti italiani – ma lo scopro solo ora – “il Bieco Barone”). Diciamocielo, un character che potrebbe benissimo impersonificare, viste le scorrettezze messe in atto e il carattere furbetto, il tipico italiano a cui, alla fine della fiera, si può volere anche del bene, specie in occasione dei siparietti con il terribile assistente Muttley. A livello di cattivi sfortunati, citerei un paio di character che, a mio avviso, sono stati poco e male sfruttati dagli sceneggiatori che li hanno curati (in questo senso, sono degli sfigati, non certo per le potenzialità che indubbiamente hanno): uno di papà DC, Lock-Up, comparso in una manciata di storie di Batman e di Robin, e uno di mamma Marvel, Spymaster, villain di Iron Man, all’epoca dei fumetti Corno tradotto come “Il Signore Spia” nel nostro idioma (che ricordi!).
alunno Proserpio In Fargo troviamo un grande cattivo-sfigato, il rapitore interpretato da Steve Buscemi, e un grande sfigato-cattivo, il mandante del rapimento della moglie, interpretato da William H. Macy. Il primo finisce in uno sminuzzatore di legna, il secondo finisce in galera. In generale in quasi tutti i film dei Cohen i cattivi sono parecchio più interessanti dei buoni.
duffogrup Naturalmente il trio Drombo di Yattaman e in generale tutti i cattivi delle serie comiche Time Bokan della Tatsunoko. Ogni puntata il vero spettacolo consisteva nell’entrata in scena dei deliranti robot progettati da Boyakki e destinati inesorabilmente ad essere distrutti da quei nippo-nazisti degli Yattaman. Indimenticabile poi, nella serie parallela Calendar Man il momento della redenzione del trio composto dalla Principessa Lunedì e i fedeli Settembre e Ottobre, di fronte alla probabile punizione del robot King Star. Commosso dal ravvedimento il gigantesco robot se ne va ma, causa la puntuale stupidità dei tre, si accorge di essere stato preso per il culo, per cui scaglia la sua freccia e distrugge il loro robot producendo l’immancabile fungo atomico a forma di teschio.

Ripariamo la maledizione del monologo del cattivo: se fossi tu il supercriminale quale eroe faresti fuori? e come?

Mastro Stout Andando a scavare fra i ricordi più profondi della mia infanzia da imberbe teledipendente, rimembro un episodio che casca a fagiuolo. Non ricordo il titolo dell’anime (forse il Toriton di Osamu Tezuka? n.d.duffo) ma era la sua ultima (o quasi) puntata. Il ragazzino protagonista del cartone, una specie di giovane Aquaman (c’entrava Atlantide o cmq qualche antico reame subacqueo), sconfigge definitivamente la sua nemesi, un ibrido tra uomo e squalo. Non ricordo minimamente le modalità della tenzone ma, in onore di quel piccolo Io deluso e rattristato per la morte di uno dei suoi villain preferiti (nel vedermi rabbuiato, ricordo mia madre che, impietosa, sentenziò: “Era cattivo”), riscriverei volentieri il finale di quella puntata, tiè!
alunno Proserpio Mi travestirei da Rosa Klebb, intepretata dalla grandissima Lotte Lenya, che tra l’altro era la moglie di Bertolt Brecht oltre che una mitica cantante negli anni della repubblica di Weimar, per dare quel che si merita a James Bond in From Russia With Love. Sarebbe sufficiente avere la lama che esce dalla punta della scarpa con qualche centimetro di lunghezza supplementare per affettare la risorsa più preziosa del celebre agente segreto.
duffogrup Steven Seagal, o meglio ognuno dei suoi personaggi. Datemi un’arma, qualsiasi tipo d’arma. Armi da fuoco, armi bianche. Una forchetta, un cucchiaino. Quell’uomo merita una fine atroce. Soffocato da calzini putridi. Trascinato da un dragster. Schiacciato da un branco di trichechi. Altro che scansare le pallottole e andare in giro con la faccia da tamarro a fare il duro, se potessi gli sturerei la testa con un putipù.

I tre cattivi con le facce più memorabili?

Mastro Stout Darth Vader (ma è un cattivo?), con e senza casco. Frà, ora non dirmi che questa frase vale 2 risposte 😛 Se sarai irremovibile su ciò, cambio risposta e ti sparo veloce celoce un trio indimenticabile: Grossa Tigre, Tigre Nera e Re delle Tigri di Tora no Ana ossia Tana delle Tigri! Se cito anche il big boss, Grande Tigre, so che incorrerò in una squalifica, indi mi astengo.
alunno Proserpio Sembra una domanda per rispondere subito che al primo posto c’è il caro Leatheface (Texas Chainsaw Massacre). In realtà non sappiamo nemmeno bene che faccia abbia, visto che ama indossare le sua caratteristica maschera fatta di pezzi di pelle umana. Comunque se vedete una specie di gigante vestito con abiti laceri che vi corre incontro con fare minaccioso ed emettendo versi inarticolati, vi conviene allontanarvi, specie se tiene in pugno una motosega.
Per affinità con Leatherface, cito l’amabile Capitan Spaulding, interpretato da Sid Haig nei due film capolavoro dell’Horror degli anni zero, La casa dai Mille Corpi e Devil’s Rejects di Rob Zombie. Il capitano ha una specie di museo nel deserto, nel quale ospita un’esibizione dedicata a mostri, serial killer, freak e creature dannate di ogni genere. In questa mostra permanente di mostruosità, che assomiglia a una wunderkammer white trash mescolata a una casa del terrore da luna park, lo stesso Capitano sarebbe degno di figurare come reperto: pelato, faccia butterata, denti orribilmente gialli e marci, una barbaccia da caprone sudicia, tutto contribuisce a fare di lui uno dei più simpatici e ributtanti villain degli ultimi anni (oltre che un autentico concentrato dell’orrore americano, una specie di archetipo nero, metà Charles Manson, metà colonnello Sanders del Kentucky Fried Chicken). Ah, dimenticavo la cosa più importante, con il suo make-up da clown risulta perfetto per resare nella memoria degli appassionati di pagliacci assassini.
Terzo il Mystery Man, interpretato da Robert “Baretta” Blake in Strade perdute di Lynch. La faccia imbiancata, le sopracciglia rasate e un semplice telefono celluare per una delle scene più inquietanti della storia del cinema.
duffogrup Il Joker di Heath Ledger del Ritorno del Cavaliere Oscuro. Dovrebbe essere un clown, ma in realtà quel trucco sembra più un impiastro bianco chimico attaccato alla faccia che richiama il Killing Joke di Moore, gli occhi neri che ricordano una mascherina ma anche gli occhi di qualcuno che sta male. Il rosso della bocca che continua come sangue sulle cicatrici che gli allargano il sorriso. E poi quella lingua sempre in movimento. Il villain cinematografico più riuscito degli anni 2000.
Il fantasma del palcoscenico di Brian de Palma. Ricordo che da bambino ho intravisto questo film e devo dire che il personaggio del Fantasma era assai terrificante. Vestito in una tuta nera col mantello, con in testa un casco argentato a forma di testa di falco in cui si intravedono degli occhi pazzoidi, una bocca coi denti di metallo e le labbra truccate con un rossetto nero, si esibisce in virtuosismi all’organo. Una visione angosciante ma, come succede spesso coi ricordi, sbagliata. Il povero fantasma altro non era se non la vittima del vero mostro: il produttore discografico Paul Williams che, diciamola tutta, per risultare pauroso non necessitava di trucchi.
Arnold Scwarzenegger nel 1984, che in poche inquadrature ridicolizza il lavoro dell’intera squadra degli effeti speciali di Terminator quando per rendere credibile il fatto che egli sia una spietata macchina cibernetica programmata per far fuori tutte le Sarah Connors di questo mondo gli basta indossare un paio di occhiali da sole.

Qual’è un oggetto dotato di poteri maligni che varrebbe la pena di far arrivare ai posteri? (Vale sia come oggetto dotato di poteri negativi, cosa inanimata che acquista vita-poteri-forza o oggetto che pur non avendo nessuna caratteristica particolare risulta in qualche modo “cattivo”).

Mastro Stout Cito l’oggetto che, fin da bambino, mi affascina di più nell’Universo Marvel: il cubo cosmico! Praticamente, realizza qualsiasi cosa uno voglia, dimensioni alternative incluse. Rivolgersi al Teschio Rosso (e al Seminatore di Odio) per maggiori informazioni.
alunno Proserpio “Oh god! Oh Jesus Christ!” grida il Sergente Howie, ormai nelle mani di un gruppo di pagani multicolori, capitanati dal memorabile Lord Summerisle, alias Christopher Lee vestito da donna. Cosa ha visto? Un fantoccio di vimini costruito su una scogliera. Ma perché si preoccupa tanto, dopotutto non vorranno mica chiuderlo proprio lì dentro? Mai andare sulle Ebridi a cercare bambine scomparse se non si è pronti a rimetterci la pelle.
duffogrup Il malvagissimo bambolotto meccanico che spunta fuori all’improvviso in Profondo Rosso e che spaventa il povero malcapitato Glauco Mauri, giusto il tempo di distrarlo in modo che il killer possa prenderlo e sbatterlo sulla mensola, spaccargli i denti e infilzarlo con un punteruolo. Il tutto mentre il povero pupazzotto con lo sguardo demoniaco se ne sta a terra tutto rotto a muoversi come avesse le convulsioni.

Le tre frasi memorabili pronunciate da un cattivo.

Mastro StoutL’Imperatore non è indulgente quanto me” (Darth Vader); “Tu non sei il tuo misero piccolo portafogli” (dal libro “Fight Club”; non mi ricordo però se lo dice il protagonista o il suo “lato Pitt”); dulcis in fundo, l’intero monologo del Gen. Nathan R. Jessep di “A Few Good Man” (“Codice d’onore”), interpretato magistralmente dal mefistofelico Jack Nicholson.
alunno ProserpioSqueal like a pig” detto da uno dei redneck al povero Ned Beatty in Quel tranquillo week end di paura. Agghiacciante, per quello che succede dopo…
Grillo Grifi: “Nessuno mi ha seguito tranne un nano di nome Topolino
Gambadilegno: “Ah! Un Nano! Un nano! E non capisci, cervello di gallina, perché Topolino ti ha seguito fin qui?…Egli lavora per la polizia segreta!” Leggendario scambio di battute tra Gamba e il suo complice in Topolino agente della polizia segreta di Floyd Gottfredson.
“…” Michael Myers che non dice niente per tutta la durata di Halloween di John Carpenter.
duffogrupWendy? Sono a casa amore!” Come non accogliere a braccia aperte uno come Jack Nicholson in Shining?
Il mondo è mio!!” La frase che mi tormenta da quando ho 5 anni e la pronuncia il Dottor Zero l’oscuro quattocchi arcinemico di Fantaman.
Io sono Tetsuo!” tamburi, coro, titoli, fine…


I Quiz del Dead Parrot: Cinema!


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Una scena “de paura” che ti ha fatto davvero paura.

Mastro Stout Da discreto appassionato di cinema horror, opterei per una scena che di horror, apparentemente, ha poco ma in cui la tensione si taglia davvero con il coltello ossia il momento in cui la protagonista di quel piccolo capolavoro che è The Descent realizza che la sua vittoriosa fuga dai mostri del sottosuolo era solo un sogno ad occhi aperti. La realtà, quella sì, è decisamente tragica e senza via d’uscita. Devo anche dire che la camminata stile ragno della protagonista de L’esorcista mi colpisce sempre.
alunno Proserpio La scena finale di Don’t look now (Venezia Rosso Shocking). Donald Sutherland segue un cappuccetto rosso tra calli e campielli in una spettrale Venezia notturna. Sarà la figlioletta redidiva? Oppure no. La prima volta ho visto la scena ero, come spesso mi capita dopo le otto di sera, in dormiveglia e mi è venuta una mezza crisi di panico. Un solo nome: Adelina Poerio. Chi ha visto il film non se la dimentica… Ma anche le apparizioni dei bambinetti in Brood La covata malefica di Cronemberg mi sono sempre rimaste impresse. Con le loro giacchettine a vento anni settanta, la faccia rugosa e i capelli biondicci sono assolutamente spaventosi.
duffogrup Lino Capolicchio fugge. E’ ferito e sconvolto da quello che ha appena visto. Riesce a trovare rifugio in una sagrestia dove un prete dallo spiccato accento emiliano gli dà asilo da due anziane sorelle pazze e assassine. La scena è l’epilogo del film La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati. Un crescendo di terrore che culmina con la visione di una schifosissima tetta cadente che spunta da sotto una tonaca, una risata isterica che fa accapponare la pelle e la faccia terrificata del povero Capolicchio. Uno dei migliori horror degli anni ’70, fatto di personaggi circensi e atmosfere padane.

Quale battuta ruberesti a un film per farti bello in una situazione difficile?

Mastro Stout Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto (da Per un pugno di dollari di Sergio Leone).
alunno Proserpio Ovviamente Sono nato pronto! detto da Kurt Russell in Grosso Guaio a Chinatown, la commedia action di John Carpenter, vista al cinema a 14 anni… Una battuta che può andar bene per ogni situazione, sia per un rendez vous romantico che per saltare la fila in posta o sostenere un colloquio di assunzione. Anche se tutto il dialogo all’inizio delle Iene, quello su Like a Virgin di Madonna, andrebbe citato per ridar vita ad ogni occasione sociale noiosa.
duffogrup Oggi hanno chiesto a te di far fuori Joe, domani chiederanno a me di far fuori te. Se questo sta bene a te, a me non sta bene. Poi proprio come Noodles in C’era una volta in america darei gas alla mia Grande Punto percorrendo con Mastro Stout, l’alunno Proserpio e platipuszen, tutto il molo Audace tuffandomi nel golfo di Trieste.

Tre canzoni (o musiche) memorabili legate a tre scene della storia del cinema? Valgono sia pezzi da cantare che da fischiettare o da ballare.

Mastro Stout I primi secondi di Battle Without Honor or Humanity di Hotei Tomoyasu, music theme dell’entrata in scena della Banda degli 88 Folli di Kill Bill Vol. 1 (scena vista e rivista non so quante volte).
Da The Doors di Oliver Stone, Jim Morrison che se ne fregò (o si dimenticò o… chi lo sa) di quanto richiesto dal conduttore e sparò un sonoro “Girl, we couldn’t get much HIGHER!” cantando live al programma tv Ed Sullivan Show, il 17 settembre 1967, la celebre Light My Fire.
Moving On (The End), scelto tra i vari temi musicali di Lost. A risentirlo, già mi scende una lacrimuccia… È vero, fa parte dell’OST di una serie televisiva ma Lost è molto più che cinema!
alunno Proserpio Troppo facile pescare da Tarantino, che ha fatto del rapporto canzone immagine un’arte, allora vado su cose più particolari, Keith Carradine che canta I’m Easy in Nashville di Robert Altman. Tre donne, ognuna convinta che la canzone intonata dal fascinoso barbuto country, sia dedicata a lei. Ma solo una è davvero quella giusta. Tutta una storia raccontata in un paio di minuti, tutto il genio di Altman in una scena sola. Porque te vas ballata da Ana Torrent, forse la più incredibile attrice bambina, in Cria Cuervos, dramma psicologico di Carlos Saura. La magia e l’inquietudine dell’infanzia nella Spagna degli anni settanta. E poi The End dei Doors con il napalm che cade sulla jungla nel memorabile inizio di Apocalypse Now, mentre Charlie Sheen suda allucinato nella sua stanza. Saigon, shit!
duffogrup Siccome sono un precisino io rispondo alla lettera.
Da cantare: lo stornello che il gestore del ristorante “Da Sergio e Bruno gli incivili” dedica a Lino Banfi, commissario di polizia, in Fracchia la belva umana e che lo stesso Banfi chiude magistralmente. Da fischiettare: doverosamente cito il maestro Morricone (campione del fischio cinematografico) tornando a C’era una volta in America per la scena che inizia coi 5 ragazzi vestiti di nuovo e finisce con Noodles arrestato, il piccolo Dominic fatto secco da una pistolettata alla schiena e l’arcinemico Bugsy sbudellato. Da ballare: Ray Charles che suona una tastiera scarcagnata nel suo negozio di strumenti musicali a Chicago, accompagnato dai Blues Brothers e dando il via ad una travolgente versione di Shake A Tail Feather solo per il gusto di far vedere a Jake ed Elwood che quel piano valeva i 2.000 dollari del prezzo.

Hai finito le droghe, il vino e la birra sono stati già tracannati e pure lo sciamano che sta vicino a casa tua non si fa trovare. Quale film potrebbe essere una buona alternativa a un trip chimico?

Mastro Stout ‘Azz, che razza di situazione complicata! 😉 Tanti anni fa avrei probabilmente detto Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni ma ne ho un ricordo piuttosto vago. Cito quindi, per il suo finale da Armageddon (pur calmissimo dopo decine e decine di minuti di pure mattanza), The End of Evangelion, il film che chiude(va) la saga di Hideaki Anno.
alunno Proserpio Scelgo Stati di Allucinazione, il film sugli stati alterati di coscienza di Ken Russell. Willam Hurt che sperimenta regressioni filogenetiche in una vasca di deprivazione sensoriale, diventando un mezzo scimmione. Tra l’altro è il film che ha ispirato sicuramente Fringe, e c’è anche Blair Brown, che da giovane era effettivamente da alterazione della coscienza.
duffogrup Senza dubbio Tetsuo di Shinya Tsukamoto. Sebbene ispirato da un’opera dalla struttura sostanzialmente classica come Akira di Otomo, Tetsuo va oltre. Un bianco e nero sporco, inquadrature disturbanti, riprese frenetiche e musica pesante e pestatissima. Altro che trip, Tetsuo è la versione pazzoide e metal de La metamorfosi di Kafka, con in più la leggendaria trivella fallica.

Visto che hai deciso di rifarti il guardaroba, vai dal tuo sarto di fiducia con la foto del personaggio di un film . Tiri fuori la foto, la passi al sarto e gli dici “Ecco, voglio un vestito proprio così!” Chi è il personaggio?

Mastro Stout Dico Johnny Mo, capo della succitata Banda degli 88 Folli. Katana e maschera incluse, ovviamente!
alunno Proserpio La prima risposta potrebbe portarmi dalle parti di Wes Anderson, dato che i suoi sono personaggi dagli abiti più curati degli ultimi anni, ma bisogna avere il fisico di Adrien Brody o la faccia di Owen Wilson per non essere ridicoli con le giacchette andersoniane. Allora vado sull’eleganza degli anni quaranta impeccabilmente ricostruiti da Roman Polanski in Chinatown: Jack Nicholson come private eye dal look perfetto, tutto giacche a spalle larghe, dominanza di tinte beige, righine scure, borsalino, anch’esso beige, occhiali da sole con la montatura tonda d’osso. E soprattutto cerottone sul naso tagliato.
duffogrup Visto che gioco a baseball da una vita dovrei scegliere l’outfit delle Baseball Furies de I Guerrieri della Notte, la gang che se ne va ingiro vestiti con la divisa dei New York yankees, il viso dipinto e le mazze di legno. Invece scelgo l’uniforme degli Hi-Hats, un’altra gang dello stesso film, contraddistinta da maglioncino rosso con maniche a righe, pantaloni neri, bretelle, una tuba e la faccia truccata da mimo. Certo sarei un po’ ridicolo, ma sempre meglio di quelli che per Halloween scelgono di vestirsi come quegli sfigati degli Orfani.

A quale attrice daresti volentieri l’accesso al mondo dei tuoi sogni erotici?

Mastro Stout No, dai, solo una non è giusto! Acc, sforzandomi di stare in questo ristrettissimo numero, indico colei che dal tempo delle mie mele (insomma, dalle superiori) definisce il mio ideale di donna-barbie: Katherine Kelly Lang, protagonista non solo di The Bold & The Beautiful ma, soprattutto, di quella chicca trash che è Esperimento letale.
alunno Proserpio Beh, dipende da molte cose. Se dico Liv Tyler in Io ballo da sola passo per malatone. Dominique Sanda in Novecento era effettivamente troppo stronza (tra l’altro, mettendoci vicino anche Eva Green, Bertolucci è in assoluto il regista con il maggiore occhio per la bellezza femminile). Alla fine scelgo Diane Keaton al tempo di Io e Annie, anche se sarebbero sogni erotici un po’ troppo newyorkesi, tra il nevrotico e l’intellettuale, a parlare dei libri di McLuhan col rischio di veder comparire anche il buon Woody…
duffogrup Una? Da sempre sono un sostenitore del concetto di harem per cui non posso citarne una sola e fare torto a tutte le altre, comunque sono disposto a piegarmi all’imperio della regola scegliendo fra tre categorie. Un’attrice italiana: Gloria Guida, una bellezza inusuale, quasi scandinava, per i canoni italici ma soprattutto per me l’eterna liceale nella classe dei ripetenti. Un’attrice straniera: Scarlett Johansson nella versione Vedova Nera, letale. Un personaggio: la milf per antonomasia, Mrs Robinson de Il laureato interpretata da Ann Bancroft.

Forse non te ne sei accorto, ma sei morto… per fortuna puoi sceglierti un vicino (o una vicina) di nuvoletta andando a pescare tra i numerosi defunti della storia del cinema. Chi scegli e qual’è il motivo della tua scelta? E di cosa parlate?

Mastro Stout Quando ho letto la domanda, mi sono fermato a “sei morto… per fortuna”. Sarebbe stata una gran sentenza! 😀 Non è certo stato un attore tout-court ma, in un certo senso, considerate le sue performance live e il fatto di esser stato protagonista di diversi videoclip e documentari, in parte sì. Parlo di James Douglas Morrison, il Re Lucertola. Personalmente, una delle figure più importanti dello scorso secolo, con cui sicuramente intavolerei discorsi di argomento storico e filosofico e, soprattutto, con cui discernerei di piombe memorabili.
alunno Proserpio La prima risposta sarebbe Philip Seymour Hoffmann per dirgli quanto è stato coglione… Poi vado sicuramente a farmi quattro risate e a mangiarmi un piatto di tagliatelle con Carlo Pisacane, alias Capannelle, purché sia in tenuta alla zuava come nei Soliti Ignoti.
duffogrup Chiederei a chi di dovere di mettermi vicino ad Orson Welles non tanto per parlare dei film che ha diretto o interpretato, oppure della mitica performance radiofonica che sconvolse mezza America. Quello che veramente vorrei chiedere all’infernale Quinlan è che cosa ci sia ancora dentro a quel benedetto baule che una volta gli apparteneva e che, arrivato qualche anno fa in modo rocambolesco in quel di Pordenone, ultimamente ci sta restituendo intere pellicole di suoi film che un tempo si ritenevano perduti per sempre, con la medesima magia della borsa senza fondo di Mary Poppins e con la stessa precisione di un registratore di cassa.

Sei Sergio Leone e stai per girare il famoso Triello del Buono il Brutto e il Cattivo: quali eroi cinematografici vorresti vedere sparacchiarsi a vicenda?

Mastro Stout Visto il numero esorbitante dei cinefumetti lanciati in questi anni, i sogni che da bambino avevo sull’ammirare un giorno sul grande schermo gli scontri presenti negli albi si sono praticamente tutti avverati. Ma visto che mi si chiede di vestire i panni di quel sant’uomo di Sergio Leone resterei in ambito di eroi nostrani. Assisterei quindi, più che volentieri, ad un duello all’ultima cartuccia tra il Tex di Giuliano Gemma e un qualsiasi pistolero interpretato da Clint Eastwood. Con balla di fieno rotolante e contorno di massi di cartapesta, ovviamente!
alunno Proserpio A un angolo metto il Samuel L. Jackson di Pulp Fiction, armato di Star Modello B 9mm, cattivissimo, vestito di nero, con i suoi orribili ricci impomatati. All’angolo opposto a Jon Voight con arco e frecce e cappellino da pesca, uscito dal Tranquillo Week End di Paura. A fare da terzo Bill “The Butcher” Cutting interpretato da Daniel Day Lewis in Gangs ot New York, col suo fido coltellaccio, cilindro e baffoni d’ordinanza. Samuel è avvantaggiato dal punto di vista tecnologico, ma prima di sparare deve fare tutto il suo monologo tratto da Ezechiele, The Butcher è veloce e cattivo, ma un po’ troppo teatrale, Voight fa fatica a tenere in mano l’arco, ma ha dalla sua la paura e l’istinto di sopravvivenza. Chi vincerà?
duffogrup Ricalcando un po’ la psicologia dei personaggi leoniani farei fare il ruolo del Biondo a Kaneda di Akira, che arriva sul campo di battaglia con il fucile laser e in sella della sua fantastica “moto per soli geni”. Jake “Joliet” Blues (aka John Belushi) sarebbe un ottimo Tuco, che tanto lui nel triello non spara, mentre per il ruolo di Sentenza ci metto Joubert, il killer a contratto de I tre giorni del Condor interpretato da Max Von Sydow, affinché riceva la giusta punizione che ha evitato alla fine del film di Pollack.


I Quiz del Dead Parrot: Serie TV!


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Tra le serie tv del passato nominane tre: una che ricordi ancora con piacere, una che non hai mai sopportato e una su cui il tuo giudizio, riguardandola a distanza di tempo, è cambiato drasticamente?

Mastro Stout La serie originale di Star Trek. Mi faceva davvero sognare, specie nella intro di ogni avventura, quei primi minuti di narrazione a cavallo della sigla iniziale. Tuttavia, a pari merito, devo citare “Dallas”, serie che avevo iniziato a seguire grazie a una nonna. Anche questo serial mi faceva sognare a occhi aperti ma, sinceramente, per tutte altre cose! Ah, i ricchi e felici anni ’80… è davvero passato un secolo!
Love Boat. Sicuramente ero troppo piccolo all’epoca per comprenderla appieno e seguire le vicende narrate ma davvero, fin dalla sigla, mi irritava. In un aggettivo: noiosa.
Più che serie con attori in carne e ossa, citerei diversi anime, in particolare di robottoni. Ma, ovviamente, il discorso va contestualizzato, van considerati i mezzi tecnici con cui erano realizzati, il fatto che allora ero un bambino/ragazzino, ecc. Se proprio dovessi nominare una serie tv “live action”, potrei dire Twin Peaks. Diversi anni fa venne riproposto sul piccolo schermo e fu un flop. All’epoca della prima messa in onda l’avevo apprezzata molto ma ammetto che quando iniziai a rivederla la magia era come svanita. Temo sia invecchiata male, non so se per ritmi narrativi oppure perché certe atmosfere e cliché plasmati da Lynch sono poi stati copiati e riproposti (spesso male) un numero indefinito di volte in tantissime altre serie.
alunno Proserpio Ce ne sarebbero tante, da ricordare, anche perché la generazione della prima metà anni settanta è cresciuta a suon di serie, da quelle pomeridiane a quelle, mi pare, delle 19.00-19.30. Come dimenticare la Ford Gran Torino rossa e bianca di Starsky e Hutch, il pappagallo di Baretta, le prime serie della Casa nella prateria… E più tardi A-team, con la più straordinaria sproporzione tra colpi sparati e colpi andati a segno… e Richie, Fonzie & co. e zio Zeb della Conquista del west, con la giacca di pelle a frange che non si cambiava mai… Ma basta scherzare, Duffo sa giá la risposta. Un perfido robivecchi di Watts, il suo figlio baffuto, un camion rosso scassato, zia Esther, un funkettone di Quincy Jones come sigla. Finte crisi cardiache, “Elizabeth sto arrivando…!!!” Sanford and Son
Poi vado in sintesi. Orazio di Maurizio Costanzo, una delle massime vergogne catodiche italiane.
Probabilmente Lost, mi sembrava geniale poi con il tempi l’ho ridimensionata. Però la prima volta che la vedi è un gran viaggio…
duffogrup Tra le tantissime serie che da teledipendente ho seguito nel corso degli anni quella che sicuramente devo mettere sul mio altare personale è X-Files. Seguire le avventure di Mulder e Scully, archetipi di tanti e tanti personaggi venuti negli anni a seguire, era un obbligo della domenica sera. Perdere una puntata voleva dire perdere il filo di una continuity avvincente. Una sensazione che non avevo mai provato prima: per la prima volta avvertivo veramente l’attesa settimanale per la messa in onda. Una serie che detestai quasi da subito fu invece The West Wing. La serie che narra le vicende alla Casa Bianca di un presidente democratico interpretato da Martin Sheen, creata dal “guru” Aaron Sorkin. The West Wing, fece gridare al miracolo quando uscì perchè effettivamente la sceneggiatura era veloce, fresca e diversa da quello che si vedeva in giro. Ben presto però il baraccone pareva non reggersi più in piedi: i dialoghi erano irreali, le situazioni confuse a tal punto da rendere inutile ogni tenttaivo di seguire la trama politica che stava di fondo alle vite dei protagonisti. La serie era diventato un lungo, ininterrotto, botta e risposta velocissimo tra personaggi irreali. McGyver invece è sicuramente la serie su cui il mio giudizio è cambiato di più. Quando da ragazzo guardavo Richard Dean Anderson abbattere una diga con una lattina, una gomma da masticare e una pila AA non potevo fare altro che immedesimarmi in quel geniale inventore-avventuriero, ora non posso fare altro che prendere per il culo quella zazzera e usare la sua immagine sorridente come meme del ridicolo nei forum del web.

Se facessi parte di una coppia di detective/poliziotti di una serie, chi sceglieresti come tuo partner?

Mastro Stout Domanda difficile… Non essendo una persona particolarmente pratica, opterei per Vic Mackey di The Shield, interpretato dal grande Michael Chiklis (sì, il tuo Commissario Scali, Duffo 😀 ).
Un vero duro, incasinatissimo, con una “morale” tutta sua che non voglio giudicare. Tuttavia, se ci si dovesse trovare in condizioni logistiche difficili e/o disperate (situazioni classiche, ovviamente, nei polizieschi americani), sfido a trovare un poliziotto sul cui supporto contare maggiormente.
alunno Proserpio Rust di True Detective per fare lunghe chiacchierate nichiliste, l’agente Cooper di Twin Peaks per sperimentare qualche tecnica Zen onirica di indagine. E Stavros, il riccioluto collega di Kojak, per capire che cazzo faceva tutto il giorno in ufficio. ..
duffogrup Elementare! Sceglierei Sherlock Holmes, nella versione di Jeremy Brett degli anni ’80. Sarei un ottimo Dr. Watson.

Con quale personaggio di una serie faresti cambio immediatamente?

Mastro Stout Con… troppi! ;D Per restare a serie tv recenti, in ambito sit-com direi il mitico James Belushi di La vita secondo Jim (il fatto che nella serie sia sposato con Courtney Thorne-Smith è chiaramente un quid). In ambito tv series, probabilmente Hank Moody di Californication e non tanto, banalità, per il numero di storie/relazioni/avventure che vive, quanto per l’incredibile capacità di bere alcool, di tutti i tipi e gradazioni, dalla mattina alla serie, e non soffrire mai di mal di testa! Quasi un analgesico su due piedi.
alunno Proserpio Con Garth Marenghi, sognatore, visionario, genio, autore di capolavori horror come Slicer 1-4, Black Fang e Afterbirth (in cui una placenta mutante attacca Bristol) soprattutto protagonista della serie degli anni ottanta Garth Marenghi’s Darkplace. Episodi come Once upon the beginning e The Apes of Wrath non dovrebbero mancare nella cineteca di qualunque appassionato della tv vintage…
duffogrup Con il comandante Straker di UFO che dalla sua base combatte pericolosi nemici alieni. Naturalmente l’unico abbietto motivo dello scambio sarebbe quello di essere circondato da bellissime sottoposte, coi loro mini abiti anni ’60 e tutte rigorosamente coi capelli viola. No accetterei deroghe all’abbigliamento.

Quale tra le serie tv che hai visto, a prescindere dal fatto che ti sia piaciuta o meno, reputi veramente innovativa?

Mastro Stout Risponderò sempre e solamente con una parola: Lost. Dire che mi è piaciuta tantissimo è riduttivo. Lost è stato davvero, come per tantissimi, un fulmine (ma buono) a ciel sereno, amore a prima vista. Il fatto di partire narrativamente in un modo, di indirizzarsi in un altro e di finire in tutt’altra maniera è una novità magari non assoluta, ma la tripla struttura temporale su cui man mano la serie si regge non si era mai vista prima (e credo proprio non si rivedrà mai più sul grande e sul piccolo schermo). L’ultima puntata, guardata, anzi, ammirata più volte, è sempre una grande emozione.
alunno Proserpio Ritengo assolutamente geniali alcune serie inglesi degli ultimi quindici anni: la black comedy The league of gentlemen, che crea personaggi bizzarri e li immerge in universo completamente autoportante, l’immaginaria cittadina di Royston Vasey, tra northern gothic e umorismo british. The mighty boosh, commedia pop piena di riferimenti musicali e trovate surreali (rinvio a un mio post sul tema apparso sulla Covata malefica). The Office e in genere le cose di Rickie Gervais. Ultimamente la cosa più incredibile che ho visto è Jam, del 2000, di Chris Morris, sperimentazione continua e umorismo nerissimo, audio distorto, colonna sonora elettronica che va tutto il tempo. Fa quasi star male a vederla…
duffogrup Senz’ombra di dubbio Twin Peaks di David Lynch. Per la prima volta un autore si dedica seriamente al mezzo televisivo seriale e gli dà profondità e dignità. Nelle prime puntate tutto è perfetto: il ritmo, l’ambientazione, i dialoghi, la musica. Alla fine la confusione lynchana prende il sopravvento ma la strada per le altre serie è segnata.

Una sigla da ricordare?

Mastro Stout Una? Tante, tantissime! Per non far “torto” alle sigle della mia infanzia e adolescenza, punto su una degli ultimissimi anni: il tema western di Hell on Wheels. A mio avviso, un piccolo capolavoro musicale, quasi un pezzo di Morricone velocizzato. E la serie è ancora meglio.
alunno Proserpio La silhouette di Don Draper, prima con la sigaretta e il whisky su una poltrona di design, poi che cade dal grattacielo nella sigla di Mad Men. Tutta la serie in 30 secondi.
duffogrup Scelgo quella di Attenti a quei due di John Barry (ma se barassi come fanno sempre i miei compagni di blog dovrei scrivere anche che ogni tanto canticchio pure le sigle di Missione Impossibile e di Bonanza).

Quale mezzo di trasporto vorresti guidare/portare?

Mastro Stout Anche se son rimasto scioccato dalle recenti rivelazioni su come effettivamente si muovesse (e su cui stendo un velo pietoso), non posso non citare KITT, la mitica Pontiac Firebird Trans Am di Supercar (Knight Rider).
alunno Proserpio La vasca di deprivazione sensoriale in cui si immerge Olivia in Fringe.

duffogrup Per l’atmosfera e l’avventura che si porta dietro scelgo il Cutter’s Goose, l’idrovolante scarcagnato della serie I Predatori dell’Idolo d’oro. Anche se c’è il serio rischio di schiantarsi ad ogni decollo.

Se ne fossi stato il produttore, quale serie avresti interrotto prima del tempo per evitarne l’avvenuto declino? E per quale invece ti saresti battuto per evitarne la chiusura?

Mastro Stout Direi proprio House of Cards. Ho solo iniziato a seguire la terza stagione, per poi mollare, ma è davvero di tutta altra pasta rispetto alle prime due. Capisco le logiche commerciali ma la serie aveva trovato un suo finale (perfetto) al termine della seconda stagione.
Senza ombra di dubbio Night Stalker (2005-2006), la serie più inquietante mai seguita che, proprio per le sue atmosfere horror, ha spaventato troppo l’infantile pubblico americano che ne ha decretato una prematurissima e inconcludente fine già al 6° episodio (da noi sono almeno giunti ulteriori 4 episodi che eran stati girati). La storia del giornalista Kolchak è tragica, le vicende che si trova ad affrontare spaventevoli. La “fine” lascia decisamente l’amaro in bocca per quello che poteva essere e non è stato (raccontato).
alunno Proserpio Facile, Heroes dopo la prima serie. O Fringe dopo la terza.
Freaks & Geeks, interrotto dopo una sola stagione e poi diventata di culto. A fare giustizia però il successo di moltissimi attori: dal simpatico delinuqente James Franco, allo scontroso Seth Rogen. E poi Linda Cardellini, deliziosa brava ragazza che si unisce ai Freaks, Jaseon Siegel, Martin Starr. Autore di questa tenera odissea nerd ambientata nel 1980 Paul Feig e a produrre un certo Judd Apatow…
duffogrup Probabilmente avrei interrotto The Big Bang Theory che dall’essere la serie definitiva per nerd sui nerd (inteso in termini molto allargati) si è trasformata, dopo 8 stagioni, in una sitcom come tante altre. Mentre mi sarei battuto come un leone per far diventare la miniserie The Lost Room una serie in piena regola avendo un grandissimo potenziale in termini di sviluppo della storia.

Una serie e/o una miniserie che vuoi consigliare a tutti per le lunghe notti invernali che si stanno avvicinando.

Mastro Stout Sicuramente Daredevil. Lo dico a scatola chiusa, non avendo visto ancora nessun episodio, ma raramente ho sentito parlare così bene di un telefilm, addirittura in termini di cinefumetto definitivo.
alunno Proserpio Life’s too short di Gervais, con Warwick Davis: l’episodio di Johnny Depp e quello di Helena Bonham Carter sono in grado di illuminare tutte le serate d’inverno dei prossimi dieci anni. Oppure Tinker Taylor Soldier Spy, la serie anni settanta della Bbc, con Alec Guinness nella parte di Smiley, la spia di John Le Carre. La migliore spy story e forse la miglior mini serie di tutti i tempi.
duffogrup Voglio consigliare Silicon Valley perchè in una manciata di puntate Mike Judge (quello di Beavis and Butthead) è riuscito a creare dei personaggi comici leggendari. Se poi avanza un po’ di tempo ci si può sempre tuffare nel crazy-fantasy delle miniserie inglesi tratte dai libri del Mondo Disco di Terry Pratchett oppure, se si vuole prestare il fianco alla nostalgia, rigustarsi l’unico capolavoro italico della nostra infanzia televisiva: le 5 puntate del Pinocchio di Comencini.


I Quiz del Dead Parrot: Comics!


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Con quale personaggio dei fumetti passeresti una serata al bancone di un pub tracannando pinte?

Mastro Stout Troppo facile! Pinte (di Guinness, ovviamente) + pub = l’unico e il solo John Constantine!
alunno Proserpio Facile, con Capitan Haddock, anche se sono sicuro che poi finirebbe in rissa, col capitano che sbraita contro gli altri avventori insultandoli in modo fantasioso. Forse però sarebbe meglio andare direttamente sul Whisky!
duffogrup Direi che approfitterei del massimo esperto di birra nel mondo del fumetto e cioè Charles Steenfort, protagonista della prima parte della saga dei Maestri dell’orzo di Jean Van Hamme e Francis Vallès nonchè capostipite della tradizione birraia della famiglia Steenfort. Sarebbe una serata interessante, corredata da spiegazioni dettagliate sui pregi della birra belga e innumerevoli insulti nei confronti di quella tedesca.

Con quale personaggio dei fumetti passeresti una (ma anche più di una, per Diana!) romantica serata?

Mastro Stout So io, so io la risposta di Duffo! Diana Lombard in Mystère 😉 Ora non dire che non è vero, Duffo! Quanto a me, direi che, pescando a caso tra le Bad Girls dei comics USA dei Nineties, cadrei benissimo! In ambito orientale, sicuramente una tra Lamù, Fujiko Mine e Misato Katsuragi.
alunno Proserpio Questa è più difficile, probabilmente con una delle misteriose fanciulle di Corto Maltese, da Pandora a Esmeralda, con i quattro assi tatuati sullo zigomo… anche una delle cattive andrebbe bene, tipo Venexiana Stevenson o Melodie Gael…
duffogrup Effettivamente la bella Diana, trascurata per tanto tempo dal bvzm Martin, così impegnato a parlare, parlare, parlare.. potrebbe essere una preda fin troppo facile. Però da gentleman quale sono non mi intrometterei mai tra una coppia sposata, almeno non con Java tra i piedi. La mia scelta quindi va alle sorelle Kisugi di Occhi di gatto. Naturalmente le inviterei in serate diverse, dedicando ad ognuna di loro le attenzioni che meritano. D’altronde sono pur sempre un gentleman.

Con quale autore di fumetti polemizzeresti volentieri de visu?

Mastro Stout Facile per me: uno a caso del Trio dei Sardi di Nathan Never!
alunno Proserpio Come tutti avrei voluto polemizzare col defunto Sergio Bonelli, chiedendogli ragione di una serie di scelte editoriali. Ma poi come portare rancore a uno che dopo tutto ha fatto cose importanti per il fumetto italiano? Pensando a chi è rimasto tra noi forse vorrei fare a cazzotti con Manara, ovvero il più grande talento sprecato del fumetto.
duffogrup Rumiko Takahashi. Chiederei alla regina del manga perchè non sia mai riuscita, con la sola eccezione di Maison Ikkoku, a scrivere un finale degno per le storie che ci ha regalato in questi anni.

Con quale autore di fumetti discorreresti con piacere per ore?

Mastro Stout: Non appartiene alla Nona ma all’Ottava Arte ma, insomma, lo devo proprio menzionare: Hideaki Anno, la mente dietro a Neon Genesis Evangelion.
alunno Proserpio: Anche qua, potendo andare nell’aldilà, sicuramente vorrei incontrare il più grande talento psichedelico avuto in Italia, ovvero Rodolfo Cimino. Gli chiederei da dove venivano fuori creature come i mitici Tapirlonghi Fiutatori. Altrimenti Alan Moore, anche se avrei un pò di paura ad averci a che fare.
duffogrup: Io farei volentieri una bella chiacchierata con Alfredo Castelli. Testando, con domande a ripetizione, la sua proverbiale cultura enciclopedica sulla storia della stampa americana, sui romanzi d’avventura e sui fumetti mysteriosi.

A quale personaggio dei fumetti consegneresti la fascia di capitano della tua squadra di Fantacalcio?

Mastro Stout: Non ho dubbi: Genzo Wakabayashi (a.k.a. Benji Price) di Captain Tsubasa (a.k.a. Holly e Benji).
alunno Proserpio: A King Mob degli Invisibles, per una partita di calcio psicoattiva, a base di guerriglia urbana e arcani rituali di magia sessuale.
duffogrup: Naturalmente a Shingo Tamai il protagonista di Arrivano i Superboys (Akakichi No Eleven) l’anime dove il calcio in versione samurai diventa sudore, fango e lacrime. Sta a Holly e Benji come il calcio italiano degli anni ’70 sta a quello attuale.

La sigla più figa di un anime / cartone animato?

Mastro Stout: Strumentale: Wacky Races e il tema di Lupin III a pari merito; cantata: “Zankoku Na Tenshi no These”.
alunno Proserpio: Facilissimo, c’è qualcuno che non considera Jeeg la sigla più figa di ogni tempo? Se valgono anche i film ci metto una qualsiasi di Hisaishi per Myiazaki. Ma anche la colonna sonora di Akira…mmmh…forse non è una domanda così facile!
duffogrup: Josie and the Pussycats, ritmo indiavolato e tre ragazze che suonano vestite da gatte. Cosa volete di più?

La domanda più banale possibile: i 3 fumetti più belli mai letti e che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita?

Mastro Stout No, davvero impossibile rispondere citando solo 3 opere. Mi “limiterò” a dirne un paio per ognuna delle tre scuole fumettistiche che apprezzo e conosco maggiormente. USA: spezzo la risposta tra fumetti pubblicati dalla DC e dalla Marvel, altrimenti non ne esco! DC: Batman: Il lungo Halloween e il suo seguito Batman: Vittoria Oscura (anche se, come storie brevi, citerei La storia di Sam su Superman/Batman #26 e, seppur di tutto altro genere, una delle avventure che da bambino mi fecero sognare a occhi aperti, anche per indubbio merito del formato gigante in cui venne pubblicata nei primissimi anni ‘80: Superman vs. Wonder Woman del maestro Garcia Lopez); Marvel: Iron Man: Com’è successo, com’è stato, come va adesso di Matt Fraction & Salvador Larroca (ma mi sento anche di nominare, come storia lunga, la saga di Wolverine Nemico pubblico di Millar & Romita Jr.). Giappone: anche qui nomino una storia breve (Tenera è la morte di Kinotoriko) e una un po’ più lunga (L’uomo che cammina di Jiro Taniguchi). Italia: altra fatica di Tantalo! Do due risposte, una per il fumetto d’autore, Una ballata del mare salato di Hugo Pratt, e un’altra per il fumetto popolare, la saga What If di Zagor su uno dei ritorni di Hellingen, realizzata da Sclavi e Ferri (Zagor #275-280).
alunno Proserpio Difficilissima, perchè la risposta potrebbe cambiare di volta in volta. Comunque sparo: Akira, capolavoro di narrazione pura con disegno incredibile, Watchmen, per la capacità di decostruire e reinventare i codici fumettistici, e I gioielli della Castafiore di Hergè, incredibile tour de force comico-avventuroso. Ci metto a pari merito La ballata del mare salato, bieco trucco per dirne almeno 4.
duffogrup Nell’imbarazzo di non saper scegliere mi butto e tiro fuori tre titoli “strani” tra i molti che meriterebbero di essere citati: La Fiera degli Immortali di Enkil Bilal dove ogni vignetta è un quadro; Devil Man di Go Nagai, una storia che pagina dopo pagina s’inabissa nel terrore e nella disperazione ma che non si riesce a smettere di leggere fino ad un sconvolgente finale; La Saga della Spada di Ghiaccio di Massimo de Vita che riesce nell’impresa titanica di rendere memorabile una storia con protagonisti Topolino e Pippo.


Ma c’è ancora partita?


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Mastro Stout
Nel senso: ma i fumetti di casa nostra possono ancora dire la loro, in maniera importante, nel mondo dei comics attuale? La risposta che mi sorge spontanea è particolarmente pessimistica.
Ho iniziato a leggere con i fumetti, ben più di 30 anni fa. All’epoca il panorama editoriale era composto, prevalentemente, dai fumetti della (futura) Sergio Bonelli Editore e dagli albi di supereroi delle compiante Corno e Cenisio. Il tutto, ovviamente, presente solo nelle edicole poiché le fumetterie erano ancora di là da venire. Di manga neppure l’ombra, se non qualche esperimento/semi-scopiazzatura prodotto alle nostre latitudini e che metteva in scena le vicende dei robottoni nagaiani. Questa premessa solo per dire che, ahimè, a questa età, posso tranquillamente dire di aver letto un numero impressionante di storie narrate attraverso questo medium, negli anni avvicinandomi anche a scuole di fumetto particolari, forse maggiormente “adulte”, quali quelle argentine e franco-belghe.

Se ora, proprio ora, guardo alcune delle collezioni esposte nella mia libreria, vedo un po’ di tutto e quasi tutto mi provoca un’emozione. Tuttavia, se dovessi stilare una sorta di classifica emozionale personale, temo proprio che i fumetti italiani, nella maggior parte, finirebbero nelle ultime posizioni. Precisiamo: non parlo di autori indiscutibili quali Pratt e Magnus o, per venire ai giorni nostri, Carnevale e Baronciani. Parlo di fumetto italiano cosiddetto popolare.
Sono stato un avido lettore dei Bonelli, per almeno un ventennio. Poi, e il buon Duffo lo sa, mi sono allontanato da questo universo, arrivando anche a polemizzare con un autore celebre della Casa in occasione di un incontro pubblico di qualche anno fa. Senza entrare in discorsi tendenzialmente infiniti, incentrati sulla qualità media delle storie prodotte dalla SBE da anni a questa parte, sulla nascita di continui personaggi ben poco carismatici (qualcuno ha detto “Ultimate Mister No?”) o comunque dalle fortune editoriali a dir poco altalenanti, la mia critica è, se si può definire così, emozionale. Dove sono i Death Note in casa Bonelli, dove si trovano l’epicità e il sense of wonder della JLA, vi è nel suo ormai sterminato catalogo la profondità delle graphic novel di Mazzucchelli?

Se dovessi salvare un personaggio di Via Buonarroti, non avrei dubbi: Zagor. L’unico character che ha saputo rinnovarsi pur nel solco di una gloriosa – e lunghissima – tradizione. Ma che dire delle recenti riletture di Nathan Never e Dyland Dog? E dei nuovi Saguaro (per usare un’espressione degna di Tex, già giunto al termine della pista) e Orfani? Ma c’è originalità in essi, nelle loro vicende, anche nei loro disegni? Scatenano passioni o, più facilmente, sbadigli alla lettura?
Anche se ne abbiamo parlato spessissimo in questi anni, sono curioso di leggere la tua opinione, Duffo.

duffogrup
E io ti rispondo Mastro Stout, continuando questi interessanti esperimenti di post quadrumani dedicati al fumetto, facendo uso di una metafora: la Bonelli Editore è la FIAT del fumetto italiano e come tale ha sempre determinato lo stato e le tendenze di questo media nel paese. Il paragone calza e non solo per la grandezza dell’azienda, per i ritmi di produzione da catena di montaggio che vi sono praticati e per la varietà e pervasività dei suoi prodotti nelle edicole italiane ma anche perchè l’azienda ha sempre esercitato fascino e forza di gravità verso gli artigiani delle piccole officine di provincia. Tutti ricordiamo la serie Un uomo un’avventura, prodotta dalla Bonelli, dove Toppi, Pratt, Battaglia, Micheluzzi, Crepax, Bonvi ed altri davano vita ad uno dei più riusciti tentativi di mettere insieme i mezzi di una grande casa editrice con l’opposto della serialità: il fumetto d’autore. Un po’, per tornare alla metafora automobilistica, Un uomo un’avventura può essere paragonato a quello che fu la Abarth per le macchine FIAT.

L’artigianato di qualità che si sposava perfettamente con il prodotto della grande industria. Eppure, come per le derivazioni uscite dalla carrozzeria dello scorpione, questo tentativo non ricevette (e non riceve ancora) il giusto riconoscimento di pubblico e critica. Bonelli si fondava all’epoca essenzialmente sul fumetto di avventura prebellico. Legato allo schema classico introdotto dalla trasposizione fumettistica dei Tre Moschettieri che Gian Luigi Bonelli fece dando vita a Tex, il fumetto bonelliano si sviluppa nel ventennio ’40-’50 seguendo binari consolidati. Il comandante Mark, Piccolo Ranger e pure Zagor e Mister No, che per alcuni versi sono innovativi per esempio nel evitare un facile manicheismo, sono eroi classici dell’avventura. Questi albi in Italia vanno e vanno forte per tutti gli anni ’60 e ’70 e si continuano a vedere interessanti sperimentazioni come il Ken Parker di Berardi e Milazzo, personaggio che anticipa di poco una nuova ondata. Con gli anni ’80 e ’90 infatti anche in Italia arrivano (finalmente) gli eroi problematici. Dylan Dog, Martin Mystere (il cui maggior problema sono sicuramente le logorroiche spiegazioni) , Nathan Never, Julia, Magico Vento sono personaggi che, con alterne fortune, riescono a cogliere un senso di maggiore ambiguità ed irrequietezza rispetto al tempo in cui “vivono”. Le sceneggiature, tra cui spiccano in particolare quelle di Tiziano Sclavi per Dylan Dog, sono infarcite di citazioni, riferimenti culturali che consentono una lettura multilivello in pieno stile postmoderno. Anche questa nuova versione del fumetto bonelliano ha molta fortuna tra il pubblico. Probabilmente troppa fortuna.

Come dicevo, la Bonelli è come la Fiat e proprio come la casa automobilistica di casa Agnelli, anche la casa editrice ad un certo punto si ferma. Comincia a produrre sempre le stesse utilitarie, che danno un incasso sicuro ma che sono sempre meno competitive rispetto ai modelli esteri (in particolare subisce brutalmente il successo dei supereroi americani e dei manga giapponesi). Certo vengono prodotte ancora fuoriserie da collezione come i Texoni di Kubert e Magnus ma in generale i nuovi modelli (Bred Barron, Gregory Hunter, Jonathan Steele, Dampyr) o nascono male o non vengono supportati a sufficienza e le testate cominciano a chiudere una dopo l’altra. Alla base di questa crisi c’è’ un problema sicuramente industriale, nel senso che l’azienda, soprattutto dopo la scomparsa di Sergio Bonelli, è parsa smarrita di fronte ad un mercato nuovo. Probabilmente in precedenza era diventata troppo grande e ormai troppo rigida per cambiare velocemente. Ingiustificabile però è stata la mancanza, in tanti anni, di ogni tentativo di dare battaglia per la salvaguardia di un mezzo espressivo importante come il fumetto in Italia, lasciando alle fiere e manifestazioni varie questa immane incombenza. E questo atteggiamento pilatesco lo pagò non solo Bonelli ma anche tutte quelle case editrici più o meno piccole che, in tempi di vacche grasse, vivevano delle sue briciole. Il venir meno del fumetto italiano popolare dalla tua personale classifica emozionale, Mastor Stout, purtroppo è il frutto di questo declino. Non basta un John Doe o un Rat Man per far girare la corrente e segnare un punto in questa partita, serve una nuova generazioni di giocatori.


Quando il nome fa la differenza: eroi mitici, eroi borghesi e il Quartetto Cetra


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Mastro Stout
Sono sempre stato colpito, non in maniera particolarmente positiva, dalla scelta di creare personaggi dei fumetti dotati di nome e cognome con le medesime iniziali. Di esempi ce ne sono a bizzeffe. Solo per restare nel Belpaese, quanti esempi di questa tendenza si trovano in casa Bonelli? In ordine cronologico: Martin Mystère, Dylan Dog, Nathan Never e Brad Barron (vabbè, quest’ultimo decisamente non noto come i precedenti ma comunque titolare di una “miniserie”). Ma, andando maggiormente indietro nel tempo e cambiando scuole fumettistiche, tale azione era già fortemente presente nei comics USA, almeno dalla nascita degli iconici personaggi Disney Donald Duck e Mickey Mouse. Ad inizio anni ’40, poi, compariranno vari casi simili in campo supereroistico, come, per esempio, “Lex” Luthor e Wonder Woman, i primi che mi vengono in mente. Penso che questa tendenza abbia avuto il suo apice negli anni ’60, grazie ad autori quali Stan Lee e Jack Kirby, che crearono nientepopo dimenoche Reed Richards & Susan “Sue” Storm, Dr. Doom (da noi, Dottor Destino), Peter Parker, Otto Octavius detto Octopus, Scott Summers, ecc.

La domanda che mi pongo da anni è: “Ma è proprio vero che i lettori dovrebbero ricordare più facilmente nomi di questo tipo?”. Personalmente, direi che sono i nomi corti a essere preferibili in tal senso (Zagor, Diabolik… Java!).

duffogrup
Prendo la palla al balzo direttamente dall’ultima frase di Mastro Stout, a cui do il benvenuto per essersi unito ufficialmente e in maniera perpetua al gruppo di Dead Parrot, per rispondere con un perentorio NO alla sua domanda. Certamente la doppia iniziale è un espediente, una formuletta nata nel mondo anglosassone dei comics. Un mondo che aveva l’unico scopo di vendere albi ai bambini e allora via a nomi che paiono presi da filastrocche. Comunque, iniziali a parte, l’idea parte da un assioma sbagliato e cioè che per imprimere nella mente un nome due parole sono meglio di una. Per spiegare la mia posizione, mi allontano dal mondo del fumetto per considerare da un altro punto di vista questo interessante argomento.
Nel 1914 la squadra dell’Exeter City, dopo una tournè in Argentina, si sposta in Brasile invitata dall’appena nata Federação Brasileira de Sports. Il 21 luglio 1914 Exeter entra negli annali del calcio per essere stata la prima avversaria della Seleção, che vinse anche l’incontro 2-0. Leggendo i tabellini, accanto ai nomi e cognomi tipicamente inglesi dei giocatori dell’Exeter City, appaiono i nomi propri di alcuni giocatori brasiliani che a distanza di più di cent’anni ci risultano incredibilmente familiari: Rolando, Abelardo, Pindaro. Potrebbero essere i nomi di tre giocatori brasiliani dell’attuale rosa del Botafogo e invece sono i primi “apellidos” di giocatori brasiliani registrati a livello di gara ufficiale.
Se nel caso dei tre citati, i fratelli Rolando e Abelardo de Lamare e Píndaro de Carvalho Rodrigues, trattasi di soprannomi coincidenti con i loro nomi propri, tipo Neymar per intenderci, quando arriviamo a “Formiga” ci troviamo davanti ad un vero e proprio soprannome e solo dopo interminabili ricerche sul web veniamo a conoscenza che il nome della formica era l’altrettanto improbabile Aphrodísio Camargo Xavier. L’uso dei soprannomi in Brasile per indicare un calciatore è essenzialmente dovuto alla facilità di ricordare nomi a volte semplicemente troppo lunghi per una vastissima schiera di appassionati, spesso del tutto analfabeti. Immaginiamoci un menino di Sao Paulo scrivere su un muro con mille difficoltà il nome di Edson Arantes do Nascimento o quello di Edvaldo Izidio Neto, quando invece con semplicità può vergare dei velocissimi Pelè e Vavà. E non dimentichiamoci che la bizzarria dei nomignoli brasiliani, associata alla voglia di sperimentare del Quartetto Cetra, ha dato origine ad uno degli esempi di più fulgida follia musicale degli anni ’50, a cavallo tra divertissement sul samba e goliardata razzista in stile coloniale.


La forza del nome singolo, senza bisogno di doppie iniziali, secondo me però è dovuto anche ad un altro fattore oltre alla possibilità di memorizzarlo più facilmente e cioè al fatto che inconsciamente utilizziamo il nome singolo nello stesso modo in cui gli antichi eroi mitologici Ulisse, Achille o Diomede perdevano nella parlata comune il patronimico, pur avendolo. Gli eroi che siano quelli dell’Iliade, giocatori brasiliani leggendari o quelli dei fumetti della golden age (anche italiana), per ricondurmi al discorso iniziale di Mastro Stout, non hanno il cognome perchè sono altro rispetto ai comuni mortali. Quando Givanildo Vieira de Souza prende il soprannome di Hulk non è solo perchè assomiglia come una goccia d’acqua a Lou Ferrigno ma anche perchè sul campo gioca con un impeto e una forza bestiale, proprio come il mostrone verde che, guarda un po’, nella sua versione timida e gracile prende il nome di Bruce Banner. Dylan Dog, Martin Mystere, Peter Parker sono eroi diversi da quelli classici; se vogliamo sono eroi più proletari e democratici che si confrontano con cose più grandi di loro e per poterle affrontare in alcuni casi devono smettere i panni della persona qualunque e diventare Spiderman o hanno bisogno di Groucho (di cui non viene mai nominato il cognome!) e Java. Distorcendo Nanni Moretti mi viene da ribadire che, nel fumetto, i nomi sono importanti e che se con un piccolo stratagemma si riesce a dare una dimensione in più ad un personaggio nuovo ben venga anche la doppia iniziale; tutto sta a dare un senso alle cose. Il mondo del fumetto italiano non ha bisogno di rifarsi a convenzioni e consuetudini vecchie di 60 anni per vendere ma ha necessità di storie e personaggi che si imprimano nei ricordi per quello che sono e fanno, li chiamasero anche Pinco Pallino.