Il ciondolo di Pollyanna: il brutto e il bello della vita


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In una scena del film Pollyanna del 1960 la piccola sobillatrice protagonista distrugge moralmente il reverendo Ford (Karl Malden) con una sola frase, lasciandolo piangente e in ginocchio, in preda ai rimorsi e alle convulsioni del suo animo lacerato. In realtà la piccola strega non è del tutto colpevole, la formula magica così portentosa era stata fatta incidere dal padre di Pollyanna sul ciondolo che la bambina portava al collo e, nonostante fosse stato anch’egli pastore, non si trattava di un passo delle sacre scritture. La frase era infatti una massima di Abraham Lincoln che recitava “Quando vai in cerca del male nel genere umano aspettandoti di trovarcelo, senza meno lo troverai”. Colpito dalla bellezza della citazione Roy Disney, in occasione dell’uscita del film, fece incidere la frase su migliaia di ciondoli che vennero posti in vendita a Disney World. Poco dopo lo sceneggiatore e regista del film, David Swift confessò che in realtà l’aforisma non era affatto di Lincoln ma se l’era inventato lui appositamente per il film. A quel punto il Disney meno furbo non potè che far ritirare tutte le medagliette. La citazione però resta bella e mi piace pensare che sia un ottimo punto di incontro tra la necessità di recensire anche con durezza gli orrori dell’offerta multimediale ma senza diventare troppo pessimisti. Quindi per citare un’altra frase che non ha detto Lincoln, “Spera nel meglio ma preparati al peggio”, diciamo: sparliamo del peggio ma parliamo anche del meglio.

Film

Il peggio
Mastro Stout: senza alcun dubbio seleziono il film veneziano con Jolie e Depp: “The Tourist”. In una frase: “La sagra dell’umorismo involontario!”. Vedere Frassica in versione carabiniere cadere in acqua come un ebete è puro trash da cinema chiappa&spada dei ‘70/’80 (ma all’Arma che avranno detto di ‘sta scena penosa?). Son sicuro che l’anima della meravigliosa città co-protagonista di questa pellicola inguardabile e vergognosa piange al ricordo di essere stata calpestata da tali “divi”. E piangono anche i portafogli di tutti gli sventurati che, come me, hanno avuto la sfortuna di andare a vederlo in sala.

duffogrup: Ebbene sì! Lo ammetto, sono uno dei pochi eletti. Uno dei pochi che possono (s)fregiarsi di aver visto al cinema Il silenzio dei prosciutti di Ezio Greggio. Solo la più cupa disperazione di solitario studente fuori sede, mista alla più estrema disattenzione davanti alla biglietteria, poteva portare qualcuno a perdere quasi due ore della propria vita in una sala cinematografica per assistere a quella rappresentazione del vomito su pellicola ed a pagare per farlo. Ezio Greggio, non è mai stato un regista. Non è mai stato nemmeno un comico, in quanto è incapace di generare la benché minima risata. Dai tempi de La Sberla prima e di Drive In poi, l’unica cosa dignitosa che ha fatto è stata la spalla ad un Gianfranco D’angelo da minimo sindacale. C’è qualcosa di incredibile e misterioso che si nasconde dietro a Il silenzio dei prosciutti e in generale a quel periodo della carriera di Ezio Greggio che lo portò a raggranellare abbastanza soldi per andare in America a girare film con Mel Brooks. Di certo un film sulla vita di Ezio Greggio e sui suoi film sarebbe un film drammatico, probabilmente cattivo e disperato. Di sicuro non farebbe ridere.

Il meglio
Mastro Stout: In questo caso, a consigliarmi, è il mio bisogno di catarsi cinematografica. Pongo da sempre grandi speranze (consolatorie) nel buon vecchio cinema western, in quelle buone vecchie pellicole nelle quali ogni torto veniva corretto dai sibili (e soprattutto dagli effetti) dei proiettili, spesso esplosi da character dall’indubbio fascino maudit, che spesso si ponevano a cavallo – gioco di parole non studiato – tra le categorie dogmatiche del bianco e del nero, del Bene e del Male, sorta di compartimenti stagni che, proprio per l’azione dei capolavori di questo genere, hanno iniziato prima a vacillare, quindi a sfaldarsi, perdendo le loro stolide certezze. Ogni qual volta guardo una valida pellicola western, cosa purtroppo rarissima negli ultimi decenni, la fiammella della speranza in un mondo non dico migliore ma certamente più giusto si riaccende inesorabilmente. Se devo citare un titolo, e non volendo essere troppo banale indicando l’inarrivabile Trilogia del Dollaro leoniana, dico con malcelata sicurezza “3:10 to Yuma” (da noi, “Quel treno per Yuma”) di James Mangold con due eccezionali Russell Crowe e Christian Bale. Già veder duellare il Gladiatore e Batman vale l’ideale biglietto.

duffogrup: Un titolo sugli altri non riesco a sceglierlo. Preferisco nominare Cristopher Nolan, il regista che più di ogni altro ha colto la mia attenzione negli ultimi anni senza mai deludere le attese. Nolan è sicuramente il più classico dei registi contemporanei se per classicità si intende l’abilità di usare le inquadrature ed il montaggio per ingabbiare lo spettatore nella trama che è e rimane la parte più importante del film. Anche a costo di ingannarlo come in The Prestige oppure di costringerlo a complicate ricostruzioni, Memento, Nolan porta il pubblico a provare emozione per i personaggi e le loro storie. Nei tre Batman, in Inception e anche in Interstellar (anche se questo titolo soffre un po’ il confronto con gli altri per una sceneggiatura troppo tirata per i capelli in alcune parti) sono i personaggi, soprattutto quelli secondari e minori che lasciano il segno più che gli effetti speciali.

Serie tv

Il peggio
Mastro Stout: un po’ mi spiace dirlo ma davvero “The Big Bang Theory” non mi ha mai preso, anzi. E mi ci ero messo di buzzo buono! Nulla da fare. Tutti questi sbandierati riferimenti alla cultura nerd/geek, amatissima da Duffo, Alunno Proserpio e il sottoscritto, mi sembrano davvero limitati, per fare un paio di esempi, al fatto che i character vestano la maglietta col logo di un noto supereroe oppure posizionino in casa, rigorosamente sullo sfondo, qualche action figure. Senza menzionare il fatto che, suvvia, ma in quale mondo personaggi simili riuscirebbero a mettersi (anche solo a uscire una sera) con delle gnocche come Kaley Cuoco?! Capisco la finzione cine-televisiva ma qui si esagera! La sitcom mi sembra proprio una fiaba a uso e consumo di certo pubblico americano.

duffogrup: Qualsiasi fiction di RAI e Mediaset. A partire dagli anni ‘80, con la nascita della tv commerciale italiana, e progredendo terribilmente nei ‘90 e nel XXI secolo, la competizione al ribasso tra RAI e Mediaset ha condizionato in negativo la capacità di sfornare prodotti degni di essere trasmessi. Proprio quando all’estero il formato serie costruiva attorno a sé quel fascino nei confronti degli addetti ai lavori e quel consenso di critica che stanno dando tanti frutti oggi, in Italia ci si circondava di marescialli, medici in famiglia, improbabili squadre di polizia, cesaroni e don mattei. Il disastro di queste serie è sia di natura tecnica che artistica. Ma non do la colpa del tutto alla produzione, in tutto questo tempo il pubblico del duopolio è stato il peggior nemico di se stesso, premiando con gli ascolti di volta in volta la risata più becera, la lacrima più facile o l’intuito più insulso. La stessa lodevole eccezione costituita dalla messa in onda de Il commissario Montalbano nel 1999 si è incartata su se stessa con la riproposizione episodio dopo episodio gli stessi stereotipi e macchiette (parlo di personaggi ma anche di “paesaggi”), lasciando a Sky il ruolo di ancora di salvezza della fiction di qualità italiana.

Il meglio
Mastro Stout: Più che un singolo titolo, opterei per una neo-corrente cine-televisiva: le produzioni made-in-Netflix e, più specificatamente, quelle legate all’Universo Marvel. Dopo un paio d’anni di produzioni, il bilancio, penso si sia tutti d’accordo, è assolutamente positivo. Lasciamo perdere il discorso delle categorizzazioni tanto care ai mondi del piccolo e grande schermo (sono telefilm? Mini-film? Rimpiazzeranno i film di supereroi al cinema?) e parafrasiamo semmai le domande che giungevano alla redazione della benemerita Editoriale Corno ai tempi della prima ondata di supereroi Marvel in Italia. È migliore “Jessica Jones” o “Daredevil”? Giochiamo pure così, lo stan facendo un po’ tutti i Marvel Zombies e non che seguono queste serie ma ha davvero importanza? Ovviamente no, nessuna. Almeno fino a quando la qualità media di queste opere resterà di un tale livello. Cresciuto leggendo centinaia di albi della Publisher House newyorchese, ho potuto finalmente smettere di sognare di adattamenti professionali di questi eroi. Il sogno si è infine realizzato.

duffogrup: Ho appena scritto che Sky è l’unico produttore italiano di serie di qualità. In effetti Romanzo Criminale, Gomorra e 1992 (da un’idea di Stefano accorsi) hanno ricevuto tutte entusiastiche recensioni e ottimi dati di ascolto. Ma quella che secondo me è la vera perla estratta dal cilindro italiano di Murdoch è una serie comica: Boris. La serie del pesce col nome da tennista è riuscita dove nessuno ce l’aveva fatta dai tempi di Fantozzi, far ridere in maniera cinica e senza compromessi mettendo alla berlina non tanto il politico di turno, quanto l’italiano medio (nel caso di Boris l’intera troupe de Gli Occhi del Cuore). Prendere per il culo i più deboli non è bello, ma guardando Boris cominci a pensare che in fondo furbi, impostori e paraculati non si trovano solo nelle stanze dei bottoni. Oltre a questo Boris ha il merito di aver creato uno dei più grandi personaggi del panorama comico italiano dell’ultimo decennio: il regista Renè Ferretti di Fiano Romano.

Fumetti

Il peggio
Mastro Stout: Opto per “Nathan Never”, quella che poteva diventare LA serie italiana di fantascienza a fumetti e che invece, man mano che gli episodi si accumulavano negli anni, s’è tristemente rivelata un insieme sparso di citazioni-scopiazzature di diversi anime giapponesi, quali, su tutti, “Kidoo Senshi Gandamu” e “Shin seiki Evangerion”. Peccato, davvero. La serie ha comunque l’indubbio merito di aver fatto conoscere al grande pubblico e aver contribuito a lanciare nell’empireo dei disegnatori artisti italiani del calibro di Claudio Castellini e Roberto De Angelis.

duffogrup: Scelgo Orfani della Bonelli. Non ho nulla contro Roberto Recchioni e nemmeno contro la volontà di portare dei cambiamenti in Bonelli coincisa con la sua venuta nella casa di Tex. Anzi, come abbiamo già scritto Mastro Stout ed io, la crisi del fumetto popolare italiano è dovuta essenzialmente alla crisi di creatività iniziata con la dipartita da Dylan Dog di Tiziano Sclavi ed esplosa drammaticamente dopo la morte di Sergio Bonelli. Detto questo io sono dell’idea che non si risponde in questo modo a questi problemi. Non con un fumetto che sembra vecchio già alla partenza, pieno di stereotipi e dalla trama scontata. C’è il colore certo, che (incredibilmente) per una serie Bonelli nel 2016 è una grande novità, ma c’è un’idea estetica un filo originale? Ci sono frasi ad effetto certo, ma c’è un’epica che si discosti un minimo dallo scopiazzare film e serie tv americane? No. Per rinnovare il fumetto americano negli anni ‘90 hanno preso i vecchi supereroi e li hanno letteralmente distrutti. Forse era il caso di provarci anche da noi.
PS: menzione d’onore per Unità Speciale, perché il fumetto dei Carabinieri non deve essere dimenticato. Se non ci fosse un chiaro sforzo propagandistico dell’Arma dietro questa pubblicazione sarebbe realmente incomprensibile il motivo che ha permesso ad una tale schifezza di arrivare fino alle edicole. Storie ridicole e disegni urendi e neanche un’oca come la Arcuri a mostrare ogni tanto l’armamento di ordinanza. Da tramandare ai posteri perché inorridiscano pure loro.

Il meglio
Mastro Stout: Taniguchi-sama realizza da sempre dei manga che gli ammeregani definirebbero “larger than life”. Opere poetiche, intrise di una malinconia onnipresente ma godibilissime da qualunque lettore, in ogni fase della propria vita. Penso che quasi mai una lettura mi abbia regalato tanta serenità quanto due suoi titoli, “L’uomo che cammina” e “Gourmet”, storie che ruotano attorno a episodi in puro stile slice of life di protagonisti assolutamente normali, aggettivo che in questo caso non ha alcuna accezione negativa. Potrei benissimo essere io l’uomo che passeggia per le strade giapponesi in compagnia del suo cane così come Duffo e Proserpio potrebbero certamente identificarsi con l’individuo che assaggia diversi piatti della tradizione culinaria nipponica, in una sequenza di situazioni estremamente quotidiane ma che mai appaiono grigie o monotone, raccontate con rara eleganza di tratto e di toni. Se non possono donare un po’ di speranza e gioia nella vita questi due manga, non so davvero quali fumetti lo possano fare.

duffogrup: Questa scelta è forse la più difficile. Non vorrei dover andare troppo indietro per trovare un fumetto che si adatti all’idea di migliore o tra il meglio della categoria. Però questo è un periodo strano, mai come adesso infatti, soprattutto nel settore della graphic novel, c’è stata una tale quantità e varietà di opere. Tra quelle che ho preso e quelle che mi sono state regalate tutte sono molto belle e piacevoli da leggere. Di certo si respira un aria molto più fresca tra i romanzi a fumetti piuttosto che tra gli scaffali dei fumetti popolari in edicola. Eppure quello che è venuto un po’ a mancare in questi anni è l’opera ammazza tutti. Un Maus del 2010 per intenderci. Oppure un autore che concentrasse su di sé le figure del grande disegnatore, grande sceneggiatore e grande mescolatore di entrambi come era per esempio Will Eisner. A questo punto ho deciso di scegliere come fumetto Dropsie Avenue proprio di Will Eisner, una delle prime graphic novel che lessi. Dropsie Avenue ha la consueta forza narrativa di Eisner e, dopo vent’anni dalla sua pubblicazione, è ancora attualissimo e dovrebbe essere imparato a memoria, tavola per tavola, da chi vuole mettersi a fare graphic novel di mestiere.

Libri

Il peggio
Mastro Stout: qui son proprio in difficoltà e immagino non valga menzionare testi universitari 😉 Mi tuffo e dico “La luce di Orione” di Valerio Evangelisti. Non comprai io questo romanzo ma mi venne regalato. Prima di esso, non avevo letto nulla dell’autore, e questo rappresentò il problema principale della mia difficoltà a comprendere e apprezzare appieno un universo narrativo (peraltro non lineare) che contava già sulla bellezza di 10 capitoli. L’opera in oggetto rappresentava infatti il penultimo tassello del ciclo letterario dedicato al personaggio dell’inquisitore Eymerich. Dovendomi quindi immergere in medias res e ignorando del tutto il già narrato, l’impatto fu tutt’altro che semplice e mi gustai ben poco la vicenda, comunque ben scritta e contenente dei cliffhanger discreti.

duffogrup: La parola mattone usata nei confronti di un libro riesce nell’impresa di racchiudere in un solo termine tre caratteristiche distinte: la forma, lo spessore e la pesantezza della lettura. A Drood di Dan Simmons mattone si adatta benissimo. Da fan di Charles Dickens le storie lunghe non mi spaventano. I romanzi di Dickens però, a differenza di quelli moderni, erano costruiti sulla base di capitoli pubblicati perlopiù su riviste settimanali. La necessità di tenere alta l’attesa era fondamentale per cui Dickens faceva spessissimo ricorso al cliffhanger tra un capitolo e l’altro, secondo il precetto dell’amico Wilkie Collins “Falli piangere, falli ridere ma soprattutto falli aspettare”. Drood è un romanzo che ricostruisce in maniera perfetta la Londra vittoriana e nelle prime pagine questa atmosfera ti avvolge in maniera convincente. Però arrivato a metà del libro, nonostante tutto il mistero della vicenda, ti accorgi che in realtà Drood è estremamente noioso e prolisso. In una parola un mattone di 830 pagine. Arrivato a tre quarti ti chiedi finalmente perché continuare a leggere Drood quando puoi usare meglio il tempo per leggere uno qualsiasi dei libri di Charles Dickens.

Il meglio
Mastro Stout: So di rischiare d’esser banale e, cosa personalmente ancor più temuta, gli strali dei colleghi di blog ma dico “Siddharta” di Hermann Hesse. Ho letto questo piccolo grande libro tantissimi anni fa e chissà se oggi come oggi sarebbe in grado di darmi la stessa carica di tranquillità di allora, di ricaricare le mie stanche batterie. Immagino, e temo, di no, in quanto sono molto più vecchio di allora e, soprattutto, molto più acido e disilluso verso la vita. All’epoca però… che lettura!

duffogrup: Devo dire che negli ultimi anni di non molti libri ho caldeggiato la lettura a destra e a manca quanto Ready Player One di Ernest Kline (suggeritomi dal sempre prezioso alunno Proserpio). Per quanto il libro venga costantemente indicato come destinato principalmente a nerd quarantenni, gli unici a quanto pare che possano recepire i continui rimandi alla cultura pop degli anni ‘80, io sostengo l’esatto contrario. Poche volte infatti mi sono trovato davanti ad un universo narrativo così vario e coerente adatto ad un pubblico trasversale. Kline va oltre il raccontare la lotta di un teenager contro la realtà distopica che lo circonda, come succede invece nei vari Hunger Games e Divergent, bensì crea due universi ben distinti separati da un visore di realtà virtuale. La metafora dell’immaginazione è evidente. Kline esalta l’immaginario dei ragazzi di allora trasferendolo a quello di oggi e, nonostante il mondo reale resti il luogo imprescindibile dei contatti e dei sentimenti, il virtuale non è mostrato come un luogo oscuro, misterioso e pericoloso, bensì come un posto fantastico dove tutti possono cercare e trovare la fantasia che più li aggrada e li rappresenta.

Videogiochi

Il peggio
Mastro Stout: Piccola premessa: non son mai stato un grande videogiocatore, specie in gioventù. Ammetto però che l’avvento della PS3 mi scaraventò con una certa virulenza nel vortice dei videogames, finendo per comprare anche un paio di giochi in edizione limitate e deluxe. Il mio cruccio più grande è molto probabilmente legato a “Star Wars: The Force Unleashed”, che qui citerò più che altro per ripicca. La storia? Impersonare il discepolo (ribelle) di Lord Vader, e ho detto tutto. Il gameplay? Non all’avanguardia ma assolutamente onesto e divertente, di livello medio/alto. Il marchio Star Wars, poi, era ed è una discreta garanzia. Ebbene, qual è dunque il problema? Presto detto. Un paio di livelli str#*§issimi che mi fecero rallentare così tanto al punto da abbandonare definitivamente il gioco quando il traguardo era molto vicino. Ricordo ancora le ore spese online a cercare, tramite i tutorial di altri fan, il modo migliore (ovvero l’unico) per abbattere un fottutissimo Star Destroyer. L’unica cosa che mi rallegrava in quei momenti bui erano i commenti di giocatori di tutto il globo che, tra un insulto e l’altro, asserivano sostanzialmente la stessa cosa: ma perché cavolo creare livelli tanto difficili in un gioco altrimenti fluido e che tutto voleva essere tranne che un parente di “Demon’s Souls”?

duffogrup: Spore. Una delle più grandi delusioni videoludiche della mia vita. Will Wright è l’autore di un gioco plurigenerazionale come Sim City e di The Sims, il primo simulatore di vita giocabile e divertente. Naturalmente il termine simulazione è sempre frainteso quando si parla di giochi come questi. Se prendiamo come punto di riferimento un simulatore di volo, il termine simulazione sta a Sim City e The Sims come Katy Perry sta alla musica: c’è un’idea grossolana di fondo ma una magnifica confezione che la circonda ed è con quella che ti piacerebbe giocare. Una simulazione molto approssimata ma divertente con cui interagire insomma. Quando si seppe che proprio Will Wright nel 2008 avrebbe sfornato un simulatore di evoluzione l’attesa era veramente alta soprattutto perché, a quel che si diceva, il gioco avrebbe dato la possibilità di sostituirsi alla natura plasmando forme di vita originali, le quali avrebbe impattato nell’universo in maniera del tutto diversa le une dalle altre. Ma così non fu. Il gioco, che graficamente era uno spettacolo per gli occhi, procedeva praticamente nello stesso modo ad ogni partita, che si creasse un gigante bipede dal collo oblungo piuttosto che una specie di granchio dalla mascella ultradentata e sei mani con pollici opponibili. L’evoluzione mancava totalmente delle sue componenti fondamentali, la selezione naturale delle caratteristiche e l’adattamento degli organismi all’ambiente. Nessuna conseguenza delle scelte effettuate durante il gioco, solamente un grandioso editor di creature, palazzi e mezzi per appassionati della personalizzazione feroce.

Il meglio
Mastro Stout: Se vogliamo parlare di emozioni, di batticuori, di sogni a occhi aperti (e pure chiusi), la mia testa, il mio corpo, le mie mani, tutto me stesso insomma, vanno in brodo di giuggiole per l’unico e solo “Mass Effect” (ok, è una trilogia ma qualunque capitolo scegliate, cadrete magnificamente). Al solo ricordo di quelle opere mi scende una lacrima, anzi, facciamo più di una. “Mass Effect” è davvero tutto quello che ho sempre desiderato in ambito videoludico: un mix unico e riuscitissimo di componenti RPG e action, con elementi romance e una buona percentuale di free roaming. Un gioco non vivace ma vivo, i cui protagonisti – alla fine ci si affeziona all’intera ciurma spaziale che Shepard deve guidare, non solamente a lui/lei – io lo so, diverranno reali, carne e sangue in un lontano futuro. Certo, avranno altri nomi e magari armi differenti ma saranno questi novelli Capitan Futuro a girare per il cosmo e a lottare in esso e per esso. Purtroppo non vivrò quell’epoca ma posso accontentarmi al pensiero che, entro fine 2016, giungerà il quarto capitolo della saga. Quel giorno nel mondo si tornerà a sognare di più.

duffogrup: Chiudo parlando di speranza. Perché il gioco di cui voglio parlare non è ancora uscito ma sarà in vendita da giugno. Trattasi di No Men’s Sky, un gioco di esplorazione spaziale, commercio e catalogazione naturale. A detta degli sviluppatori No Men’s Sky promette di essere un gioco molto diverso da quello a cui siamo abituati. Un gioco in cui non ci saranno trame complicate, incursioni in modalità stealth o sparatorie continue, ma principalmente ci sarà da esplorare un’infinità di mondi. E infinito in questo caso non’è una parola buttata lì per caso, perché si parla letteralmente di miliardi di miliardi di pianeti creati tramite funzioni matematiche che si mescoleranno in maniera casuale. D’altronde se perfino quel truzzo di Kirk poteva permettersi di partire per strani, nuovi mondi, perché non possiamo farlo anche noi?


2 commenti

  • alunno Proserpio ha detto:

    In questo interessante scambio rilevo una sorta di pregiudizio da parte del buon Mastro Stout. Perché mai lui dovrebbe identificarsi nelle pacifiche meditazioni botaniche dell’uomo che cammina mentre viene attribuita a me a Duffo una identificazione certa con il goloso gourmet giapponese? Forse è un pregiudizio da parte del notoriamente segaligno Stout nei confronti dei suoi non magrissimi compari di sito… se fossimo ai tempi di periodici quali il Telegrafo a vapore non potrei che dire “protesto, protesto vivamente per cotal insinuazione, anche perché è proprio il panciuto che per costituzione è propenso alle meditazioni arcadiche, al ritmo di un’amaca, specie se dopo un abbondante pranzetto…”

    • Mastro Stout ha detto:

      No, no, non vi è alcun pregiudizio da parte mia, caro AP. Rileggendo la frase, ammetto che suona quasi “accusatoria” e mi prostro. I soggetti della frase, e le azioni eventualmente poste in atto, sono assolutamente intercambiabili, questo voleva essere il senso della proposizione. Anzi, chiedo a gran voce all’arbitro di linea (senza allusione alcuna) il change, essendo io persona che potrebbe andare tranquillamente avanti a birra&dolci proprio come Bud Spender e Terence Hill a birra&salsicce.

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