L’uomo medio distopico (Parte II) – La bolla


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Circa un mese fa Rai Storia ha mandato in onda Sono nato comunista, un documentario del 2017 realizzato da Catherine McGilvray. Elemento centrale del film sono interviste, intervallate da filmati e foto d’epoca, a sei persone che tra gli anni ’50 e ’60 furono protagonisti di un avvenimento non molto conosciuto della storia della sinistra italiana. Dal 1955 al 1961 la FGCI (la federazione dei giovani comunisti italiani, da non confondersi con quella dei giovani calciatori) inviò ogni anno 15 tra i suoi membri a studiare a Mosca, in una sorta di precoce progetto Erasmus comunista. Il documentario è molto interessante soprattutto perché i ricordi personali di quei giovani, allora convintamente comunisti, si mescolano al racconto dei cambiamenti ideologici e delle drammatiche conseguenze che in quegli anni avvenivano all’interno del blocco comunista e dello stesso PCUS. I giovani italiani avvertivano, chi più chi meno, le contraddizioni di un’utopia di sinistra che si scontrava con una realtà ben diversa: dall’invasione dell’Ungheria al cambio al vertice tra Krushev e Breznev, fino alla costante presenza di una apparato burocratico opprimente anche nei confronti di chi in Unione Sovietica ci era arrivato entusiasticamente. Il punto più interessante è però l’atteggiamento che rispetto a questi temi tenevano gli autoctoni. I russi molto semplicemente se ne fregavano; il loro era un modo di vivere in quella società distopica del tutto simile a quello tenuto dal personaggio di Julia in 1984 di Orwell. Partecipazione entusiasta alle manifestazioni esteriori proprie del mondo comunista e, contemporaneamente, affrontare la vita serenamente, cercando di cogliere gli aspetti positivi offerti da quella società. Nel documentario si citano candidamente il basso costo della vita, l’ottimo livello dell’educazione statale e i molti eventi di socializzazione che costellavano le giornate sovietiche come elementi positivi, in particolare per i giovani comunisti; questo naturalmente a patto di rinunciare a molte delle proprie libertà politiche.
Un esempio di questo “accordo” dell’uomo comune con la società dispotica lo ritroviamo incredibilmente ne Il Compagno don Camillo quando il viaggio della comitiva brescellese in terra sovietica deve affrontare un delicato imprevisto. L’avvicendamento tra la destalinizzazione rampante di Krushev e la dottrina della sovranità limitata di Breznev costringe infatti Don Camillo, Peppone e tutta la delegazione, a rimanere confinati nel proprio albergo su richiesta del rappresentante locale del partito. Agli italiani non viene fornita alcuna motivazione della forzata detenzione. Proprio quando ormai i nostri temono il peggio, inconsci del dilaniamento ideologico interno al comunismo di quei giorni e che tanto farà scrivere in futuro filosofi, storici e politologi, la defenestrazione del vecchio segretario si concretizza con lo scambio sui muri delle camere delle fotografie ufficiali di Krushev con quelle di Breznev.Scambiata l’immagine del Grande Fratello, la gita per il gemellaggio può ricominciare da dove si era interrotta tra visite a stalle e fattorie, gare di pesca allo storione e rappresentazioni di bislacche opere liriche. Alla fine del film, nel paesello sovietico si viene addirittura a creare una situazione del tutto simile al proprio gemello padano quando il pope, su istigazione di Don Camillo, dà una bella ripassata al collega russo di Peppone. Insomma anche sulle rive del Don puoi crearti il tuo paesello ideale, la tua Brescello utopica, basta che sia una bolla all’interno della società distopica. E puoi spingerti anche più in là. All’interno della narrazione l’utopia può essere completamente immaginata dai personaggi e non per questo noi spettatori non la prendiamo per reale. In Brazil di Terry Gilliam, il protagonista fugge con la sua amata verso una vita migliore, lontano da quel mondo kafkiano molto simile ad una versione comica di Orwell. Sappiamo che quello che vediamo non è reale neanche nel mondo di Brazil, è un secondo livello di narrazione, ed è lo stesso Gilliam a dircelo mostrandoci la realtà della camera delle torture. Ma lo prendiamo per vero lo stesso. Questa bolla esiste solo nella testa di Jonathan Pryce, uomo comune come noi, e questo ci basta.


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