Tre forme di atmosfera: Helm, Teho Teardo e Jeff Bridges


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In ascolto in questo periodo alcuni dischi d’atmosfera, ma ovviamente scordatevi le cenette a lume di candela o le musiche da piano bar. Helm, Olympic Mess, uscito già da un po’ di mesi, è la conferma del talento dell’inglese: solito gusto per suoni organici ripresi qua e là, elettronica ambientale, sempre che l’ambient lo si intenda fatto di ronzii, droni, aperture post industriali e brevi loop oleosi che danno struttura ed evitano che il tutto vada in territori troppo astratti. Rumorini che si dissolvono prima di prendere forma, tessiture avvolgenti da chill-out inquietante, venature fantamastiche che mi fanno pensare a certe cose hauntologiche di Mordant Music, percussioni attutite, con titoli come “I exist in a Fog”, “Outerzone 2015” e “Often Destroyed”. Musica dub-cosmica da periferie urbane, con venature metalliche e disturbi soavi, non a caso dedicata al fallout della Londra post olimpica.

Eppure, nonostante tutto, Helm mantiene una specie di vibrazione positiva, un’euforia nella manipolazione del suono, che fa pensare come sotto le bolle di gasolio e nelle pozzanghere ci siano forme di vita che un po’ alla volta si compongono e iniziano a organizzarsi. Mi fa venire in mente quegli spazi di confine, tra città e campagna, nei quali la natura riguadagna faticosamente, e in modo inatteso, il suo dominio sugli scarti delle città. In un libro bellissimo, Paul Farley e Michael Symmons Roberts chiamano questi spazi, tra parcheggi, concessionari, cantieri dismessi, proliferazioni di erbe e ritorno di animali che non si più trovano da nessuna parte Edgelands, margini che non sono urbani né agricoli, ma che possiedono una loro strana identità riconoscibile. Visto a suo tempo al Codalunga, in mezzo a un numero ridottissimo di avventori, l’allampanato e pallido Luke Younger/Helm è uno dei nomi più interessanti della scena elettronica mondiale.

L’altro disco è il nuovo di Teho Teardo, ormai confermatissimo maestro di cerimonie e atmosfere, appunto, che fa uscire Le Retour à la Raison, la sua sonorizzazione della mostra di Man Ray tenuta qualche mese fa a Villa Manin. Siccome Man Ray è Man Ray, Teardo si diverte con spiazzamenti e apparizioni improvvise, aperture d’archi dentro ripetizioni minacciose, percussioni metalliche che sembrano chiamare all’adunata le caprette di Heidi nella Parigi degli anni venti, sfrigolii da frittura di circuiti elettrici, svolazzi celesti che si parlano con rumori di fondo, solennità da cattedrale e frammenti da colonna sonora immaginaria (la malinconica “Rrose Sèlavy” mi fa pensare al Delerue del Disprezzo di Godard). Se ormai non sembrasse una brutta parola, direi che è un disco di post rock da camera, all’altezza delle ultime prove (penso al formidabile disco con Blixa Bargeld o allo splendido Music for Wilder Mann) di quello che, con una formula fuori moda, si può chiamare uno dei nostri migliori musicisti. Che sembra un modo per dire che è bravo, si impegna ma non riesce. Invece è bravo, non so se si impegna e accostando cose che sembrano impossibili da far stare assieme riesce ad evocare visioni stravaganti, una specie di mercato delle pulci del novecento, pieno di oggetti trovati per caso e riusati in modo soprendente, come si addice al tema. Tra i pezzi migliori, la solenne e schizofrenica title track, il sublime da vertigine, tra archi e chitarra, di “Danger, Danger, Danger”, l’incedere ossessivo di “Synonyme de Joie, Jouer, Jouir”.

Se invece volete le atmosfere, quelle vere, quelle sognanti, ricorrete pure a dosi massicce di una una chicca assoluta. Gli Sleeping tapes di Jeff Bridges, che sono proprio quello che vi dice il titolo: musica per dormire col vocione di Jeff che invita al sonno in mezzo ad ampie coperte elettroniche, che stanno sullo sfondo per non toglierci il piacere di avere il grande Lebowsky che ci sussurra paroline dolci. Spicca su tutto il pezzo sullo “Humming” in cui Jeff mormora (non so se il termine è quello giusto, diciamo che emette una melodia improvvisata facendo “mmm-mmm” a bocca chiusa) una specie di litania dal magico potere calmante. Un disco che mette di buon umore (nasce tra l’altro da un’iniziativa di beneficienza), richiama certe sperimentazioni elettroniche americane alla Raymond Scott, e che effettivamente, se ascoltato in cuffia, riesce a emettere vibrazioni positive. Sul sito dreamingwithjeff.com potete acquistare la musica e gustarvi la fantastica grafica da visioni notturne emerse in una comune californiana degli anni settanta. La musica che probabilmente i guerrieri mentali dell’Uomo che guardava la capre si canticchiavano in testa al momento di addormentarsi.


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