Your Name. The Mastro Stout version


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Ho visto “Kimi no na wa” (titolo internazionale: “Your Name”). Capolavoro, e non solo dell’ottava arte. Un’opera enorme, riuscita sotto tutti i punti di vista: realizzazione tecnica impressionante (effetti di luce di tale livello, sinceramente, io e gli altri divoratori di anime presenti con me in sala non li avevamo mai nemmeno lontanamente visti); storia commovente ma, al solito nelle opere nipponiche, intervallata da momenti ironici godibilissimi; sceneggiatura a orologeria; personaggi molto ben delineati (considerata la durata della pellicola, che non è certo un film-fiume). Ma soprattutto un film la cui struttura narrativa è paragonabile a una corsa sulle montagne russe, sia per quanto riguarda i numerosi momenti sentimentali – capaci di toccare l’animo e strappare un singulto anche a noi inveterati cuori di pietra – sia per l’attesa di un finale che, in fondo, tutti desidereremmo sia happy ma che viene costantemente, e sapientemente, rimandato di minuto in minuto, in modo da creare un meraviglioso senso di attesa, da stillicidio emozionale. Per “riprendermi”, tanto per dire, la mattina dopo averlo visto mi son sparato un disco dell’ex reverendo Manson nel chiuso dell’abitacolo automobilistico.

Ammirate gli aloni lasciati dalle tazze di the caldo appoggiate su un tavolo, i raggi del sole che tagliano le nuvole e realizzano magnifici giochi di ombre sul terreno, le scie luminescenti delle terrificanti comete che piovono dall’alto e, più in generale, ogni singolo dei 107 minuti di cui è composto “Kimi no na wa”. Non c’è un attimo che sia sprecato, superfluo. È un flusso di immagini e parole perfetto, malinconico ed emozionante, che ha purtroppo il suo termine con l’ultimo dei titoli di coda. Un’opera che lascia qualcosa dentro il cuore, un vero messaggio di speranza per ogni uomo e donna di questa terra, cosa rarissima nei prodotti di fiction contemporanei, accecati dalla sincopata foga di dire/parlare/urlare, quando la vera ricchezza nasce quasi sempre dalla sottrazione di dialoghi e di scene, da un minimalismo che è tipico, ça va sans dire, della cultura nipponica.

Ricordo come al termine della proiezione, nel corso delle classiche chiacchiere di commento che ci si scambia tra gli amici presenti, ho sollevato per l’ennesima volta (cosa davvero brutta il diventare vecchi…) l’atavico problema del cinema italiano dell’essere totalmente incapace di realizzare anche solo pallide imitazioni di opere di cotal fattura. E sì che mai come in questi ultimi anni il nostro cinema ha iniziato – con immane fatica, sia chiaro – un processo di lento allontanamento dalla generale monnezza che puntualmente (ri)propone a ogni Natale sospinto, una diversificazione dei propri prodotti di fiction cinetelevisiva, quasi una quest di fabbricazione di lavori afferenti a generi di nicchia, da sempre bollati come di serie B se non peggio. In tal senso, la luce in fondo al tunnel è rappresentata da un paradigma umano: Stefano Sollima, vero e proprio guru del rinato crime tricolore, genere che, mai come oggi, gode di uno strameritato seguito, al cinema e in tv, tanto da aver meritatamente contribuito a innalzare il regista romano alle vette hollywoodiane. È infatti prossimo il sequel di “Sicario” (per la cronaca, uno dei film più belli di inizio millennio, pardon, uno dei migliori tre di inizio millennio), da lui diretto.

Ora, non per voler per forza collegare “Kimi no na wa” all’ottimo Sollima ma un terreno comune tra i due fenomeni c’è ed è la piattaforma di streaming Netflix. Questa, infatti, ha non solo presentato al pubblico di casa nostra l’opera precedente – e, inutile dirlo, magnifica – del maestro Shinkai Makoto, intitolata “Kotonoha no niwa” (“Il giardino delle parole”) ma sta anche producendo il serial televisivo tratto dal romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo “Suburra”, la cui versione cinematografica è stata girata dal director delle pluripremiate serie di “Romanzo Criminale” e “Gomorra”.
Grande lungimiranza? Ottimo fiuto commerciale (dirlo, in tale contesto, non è una bestemmia)? Piena e consapevole comprensione di ciò che merita DAVVERO proporre e produrre, di ciò che è anzi necessario offrire a un pubblico sempre più analfabeta in ogni campo? Probabilmente tutte queste cose assieme e molto di più. Lunga vita a Netflix (e agli anime ovviamente)!


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