Superonda: storia della musica che non fece l’Italia


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D’ora in poi quando qualche sbruffone anglosassone pasteggiando a prosecco e Ferrero Rocher durante i ricevimenti dell’ambasciatore mi sbatterà in faccia la superiorità della critica musicale d’oltremanica io tirerò fuori un volumone di più di 600 pagine intitolato Superonda: storia segreta della musica italiana. Il libro di Valerio Mattioli è un’opera meritoria, che dovrebbe essere motivo d’orgoglio della scena musicale italiana e in particolare per la categoria dei critici nostrani. Il lavoro che ha svolto Mattioli è mastodontico sia in termini temporali, infatti il periodo trattato va dal 1964 al 1976, un’intera era geologica in termini musicali, per la mole di materiale raccolto ed analizzato e per la vastità degli argomenti che il suo discorso tratta. Partendo da quella scena rock di metà anni ’60 che si pone in maniera alternativa al carrozzone sanremese, Mattioli divaga senza soluzione di continuità tra movimenti artistici d’avanguardia, corsi tedeschi di musica contemporanea, cartelloni pubblicitari, divani dal design sinusoidale, comuni hippie, laboratori fonologici, cinema western e cinema giallo, riviste musicali, droghe sintetiche, architetture improbabili, Lascia o Raddoppia e altre amenità della Rai, concerti finiti male e tanto altro (veramente tanto altro), utilizzando naturalmente come filo conduttore la musica che da quel contesto scaturiva o che quel contesto contribuiva a crearlo.

Il Sessantotto è il vero baricentro culturale del periodo considerato da Mattioli, naturalmente dal punto di vista politico ma anche da un punto di vista culturale, anche se podromi di alternatività alla cultura borghese dominante nell’Italia del boom economico vi erano già stati negli anni che precedettero Valle Giulia, un esempio su tutti il Piper. Accanto ad una storia della cultura italiana pre e post-sessantottina il libro tratta di alcuni personaggi, in particolare è centrale la figura di Ennio Morricone, che col Sessantotto da un punto di vista politico magari hanno poco da spartire ma che in un certo senso hanno avuto all’interno del mondo culturale italiano, ed in particolare quello musicale, un effetto altrettanto rivoluzionario. Per la minuzia con cui viene affrontato questo gigantesco argomento Superonda ha un respiro quasi accademico ed è una lettura obbligata per chi ha anche solo un po’ di curiosità e, come ha scritto Stefano Bianchi nella sua recensione per Blow Up, è già un punto fermo della letteratura musicale italiana con cui chiunque traccerà storie di quell’epoca dovrà necessariamente confrontarsi.

Detto questo, non succede spesso che il sottoscritto si perda in lodi sperticate per chicchessia e quindi non lo faccio neanche in quest’occasione, anzi mi sento in dovere di concludere rivolgendo qualche pseudo-critica a Mattioli e qualche altra considerazione sulla materia del libro.
Innanzi tutto ho sentito una sensazione di mancanza quasi insostenibile appena ho cominciato la lettura di Superonda, sensazione che è continuata aggravandosi fino alla fine: il libro manca incredibilmente di un indice. Non c’è un indice analitico degli argomenti ma nemmeno uno dei nomi. Un libro di storia di 600 pagine con, facciamo una media, 650 parole per pagina (basta passare un paio di pagine con l’OCR per contarle) che fanno circa 390 mila parole, ha bisogno di un indice punto e basta. Senza un indice dei nomi i collegamenti di Mattioli vanno a farsi benedire perchè io lettore, non essendo Pico della Mirandola, dopo sei capitoli posso anche non ricordarmi chi suonava il basso nei Saint Just di Jenny Sorrenti o quali architetti facevano parte del Superstudio di Firenze o chi passava l’estate a Darmstadt dei componenti del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Se una delle idee fondamentali del libro è la permeabilità di quell’ambito culturale dovuto ai rapporti e alle contaminazionni che in quel periodo avvenivano con estrema facilità, allora la mancanza di una cosa tecnica come un indice rischia di non far emergere in maniera semplice questa idea.

Un secondo appunto che mi sento di fare più che una critica è un consiglio a chi si appresta a mettersi alla lettura di Superonda. Questo libro è un invito alla multimedialità. Bisogna leggerlo a piccole dosi, fermandosi quando non si conosce qualcosa di ciò che viene descritto e andando caparbiamente alla ricerca sul web togliendosi ogni sfizio di curiosità. Non ci rendiamo quasi mai conto della fortuna di avere a disposizione una collezione infinita di immagini, filmati, brani musicali (spesso interi album) a portata di mouse finchè non ci troviamo difronte ad un catalogo di questa natura.
E qui mi collego all’ultimo punto che volevo trattare: nonostante un ondata di revival che ha spinto i discografici a ristampare diversi dischi del periodo, la grande maggioranza del materiale di cui tratta Superonda è letteralmente introvabile ed è solo grazie al lavoro di anonimi diggers (spulciatori di vinili rari alle fiere), rippatori (quelli che registrano un vinile e caricano l’audio su youtube) e collezionisti se possiamo ascoltare Fetus di Battiato, Feedback del GINC, il Volo magico di Rocchi o buona parte della library music italiana. Perchè se vogliamo proprio dirla tutta, questa musica l’Italia l’aveva per lo più dimenticata senza grandi rimpianti, con la sola eccezione del progressive italiano salvato dall’oblio da una sorta di orgoglio nazionale visto il successo di alcuni gruppi come PFM e Banco del Mutuo Soccorso all’estero. Forse il sottotitolo più adatto sarebbe stato Superonda: storia della musica italiana segreta.

Trovo che Superonda racconti fondamentalmente la storia di un movimento musicale sconfitto, capace al suo apice di muovere masse di ascoltatori verso i festival pop degli anni ’70 ma incapace di vincere la gara commerciale contro la canzonetta sanremese prima e i cantautori pop dopo. Il casino sociale e politico scatenato dal movimento del ’77 che spazzò via con una ventata di nichilismo il Sessantotto e buona parte dell’universo culturale nato dieci anni prima, nei confronti dei vari Dalla, Cocciante, Baglioni, e al loro successo di massa si dimostrò fin troppo disinteressato. Forse l’intrinseca debolezza del rock dei freak, della psichedelia e in generale di quel mondo culturale alternativo in Italia è sempre stato l’incapacità di venire a patti con l’anima artistica e commerciale del fare cultura per vivere. Da un lato c’era chi raggranellava denari inanellando hit da classifica, dall’altro chi ti rinfacciava il fatto che la musica che suonavi la vendevi ad altri ragazzi, altri compagni, e in fondo quindi eri un po’ borghese e capitalista pure tu. Era un movimento sconfitto in partenza e destinato ad un oblio che non meritava, per questo Superonda di Mattioli adesso è così importante: perché ridà dignità all’anima artistica di quell’utopia.


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