Star Wars, il risveglio della forza: nessuna rivincita per i Nerd


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La potenza e la debolezza del mito 

“La forza sia con te!” dice ovviamente alla fine il Generale Leia alla nuova quasi Jedi Rey, e sembra proprio un passaggio di consegne. Questo Star Wars. Il Risveglio della Forza è la liberazione della forza e del mito dalle mani di George Lucas: niente più necessità di essere filologici, ma il gusto di giocare con gli archetipi creati da quella poderosa macchina narrativa che è la saga di Guerre Stellari, fregandosene allegramente di tutte le incrostazioni che appesantivano in modo imbarazzante la seconda trilogia.

La genealogia è nota: un pezzo di space opera e un pezzo di western. Un po’ di Signore degli Anelli e una bella dose di Flash Gordon e Buck Rogers. E poi il genio di Lucas per dar vita a un nuovo immaginario generato attraverso la ricombinazione furiosa di elementi dei racconti di avventura classici. Solo che poi ci si dimentica che una delle novità reali di Guerre Stellari stava nell’invenzione di un nuovo modo di fare e produrre cinema.

La truppa new Hollywood di Scorsese, Spielberg e Coppola aveva bisogno di spazzare via una volta per tutte la bolsa macchina produttiva degli Studios. Se a livello di linguaggio lo aveva già fatto con film come Easy Rider, Bonnie & Clyde, Chinatown, Il Padrino, Taxi Driver e Lo squalo, doveva arrivare Lucas, quello che ai tempi della USC aveva fatto film astratti alla maniera dei registi di avanguardia newyorkesi e che aveva fatto flop con la geniale fantascienza distopica di THX 1138, per far saltare la macchina dall’interno. E quindi ecco qualcosa che non è solo una storia e non è solo un film, ma un nuovo modo di approcciare il cinema: come se Melies si prendesse la sua rivincita sui Lumiere. Fanculo il realismo e la psicologia, abbasso i melensi musical tipo Hello! Dolly, addio i polpettoni storici. Signore e signori, ritorna il cinema come visione e scoperta di mondi lontanissimi. La meraviglia contro la realtà, la saga contro la storia, il mito contro tutto il resto.

Solo che a Lucas, come è ovvio, il mito è sfuggito di mano. Aveva le visioni, ma non le immagini per dominarle. Intendo dire, a meno di essere dei nostaligici inguaribili, come non trovare ridicoli, con gli occhi del nostro tempo, il primo Darth Vader, con la tuta che sembra riciclata da qualche trovarobe, i mostriciattoli a bassa definizione, gli Ewoks, creature gadget targhettizzate sui bambini? Come non accorgersi che Hamill e Fisher erano troppo poco iconici per reggere il peso di tutto quel bagaglio mitologico? Lucas ha aperto un mondo e, come tutti gli scopritori di altre dimensioni, non poteva essere del tutto equipaggiato per esplorarlo. I limiti di Lucas testimoniano della grandezza della sua mitologia, ma rimangono comunque dei limiti.

La seconda trilogia, qualche decennio dopo, l’ha dimostrato. Chi poteva pensare che Liam Neeson potesse essere davvero all’altezza di tutto quello che sarebbe accaduto dopo? Anakyn è evidentemente frutto di un casting fatto da parte di qualcuno che non capiva dove stava andando il mondo. Nel tempo di Johnny Depp, di Brad Pitt e di Leo Di Caprio, Hayden Christensen aveva il carisma di una patata lessa. Nolan stava diventando Nolan e George Lucas tira fuori Jar Jar Blinks. Keanu Reeves stava esplorando il deserto del reale e la Matrice e Lucas va a girare nella Reggia di Caserta. Pulp Fiction, qualche anno prima, apriva la strada a una nuova generazione di voraci e smaliziati divoratori di miti. Gli hipster stavano arrivando, con un solo verbo: anche i frammenti culturali ed estetici più remoti, anche le sottoculture più riottose, anche gli outsider più impresentabili possono essere ripresi, purché tutto avvenga in modo stilisticamente perfetto.

Il trionfo della volontà Hipster

Se inseriamo l’opera di Lucas in un minimo di prospettiva storica vediamo subito un po’ di cose interessanti. I gusti sono soggettivi, ovviamente, ma se facciamo un confronto in termini di cinema popolare, Lo squalo di Spielberg, del 1975, mi sembra ancora oggi ben più appassionante (dal punto di vista della costruzione narrativa) del primo Star Wars (1977). Se parliamo di cinema fantascientifico, nello stesso giro di anni escono Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), il primo Alien (1979), ET e Blade Runner (1982). Quali film siano invecchiati meglio se li mettiamo vicini alla prima trilogia (1977-1983) non credo sia tema di discussione. Se poi prendiamo la seconda trilogia, ci dobbiamo mettere, nell’intervallo 1983-1999, Cameron da Terminator (1984 e 1991) a Titanic (1997), il primo Matrix (1999) e nel genere cyberpunk ci mettiamo anche Strange Days e Johnny Mnemonic, entrambi del 1995, meno memorabili ma comunque portatori di un immaginario alternativo a quello della sci-fi tradizionale. Poi ancora Spielberg, con Jurassic Park (1993) e il Soldato Ryan (1998, non è sci-fi ma è il culmine di un certo cinema classico); persino, se vogliamo, Star Trek The Next Generation (1987-1994) per non dire di quello che succede in Giappone con Akira (1988) e Ghost in The Shell (1995). Infine, se consideriamo La vendetta dei Sith (2005), e ci mettiamo vicino Minority Report (2002), la trilogia dell’Anello di Peter Jackson (2001-2003) e Lost (prima serie 2004) il confronto diventa addirittura cattivo. Però, questo elenco può essere visto in modo rovesciato: nessuno dei film citati, per quanto si parli in molti casi di capolavori assoluti, ha eguagliato la potenza mitologica e mitopoietica generata da Lucas (tolto forse Alien, a suo modo nuovo archetipo del mostro; nel caso di Jackson ovviamente la mitologia c’è, ma è di secondo grado).

Allora arriva JJ Abrams, non un grande regista, ma un grande spettatore. Uno che sicuramente i classici appena citati li ha visti e rivisti. Abrams non è un creatore di miti (anche se con Lost ci è andato vicino), ma sa fare benissimo due cose: sa vedere e sa vendere. Perciò riesce a portare a termine quello che Lucas, troppo impegnato a seguire le sue visioni d’infanzia per essere fino in fondo cool, non ha saputo realizzare: la perfezione visiva. Il deserto del nuovo episodio è un misto tra il primo Star Wars, Dune e Nausicaa, con un pizzico della sabbia alchemica di El Topo di Jodorowsky. Dopo l’inizio tutto sommato abbastanza tradizionale, con l’attacco delle postazioni “buone” che ricorda la brutalità operativa di certi film militari recenti tipo quelli di Katherine Bigelow, quando vediamo arrivare Rey, con la faccia avvolta in un drappo bianco e gli occhialoni antisabbia, iniziamo a capire qual è la chiave per entrare nel film. Abrams sa creare le immagini giuste. Icone pop e glamour, che con la loro semplice apparizione diventano indimenticabili. Il nuovo cattivo è un misto tra un guerriero black metal, con tanto di spadona laser-croce rovesciata, e una versione satanica dei Daft Punk. Adam Driver si impone per carisma su qualunque cattivo mai apparso in una delle saghe Stellari.

L’adunata dei cattivi in stile Norimberga è semplicemente fantastica, da Trionfo della volontà di Leni Riefenstahl, così come la raggelante distruzione dei pianeti con super raggi cosmici rossi che si riflettono per un attimo sulla maschera nera di Kylo Ren, è una sintesi di tutto il cinema apocalittico degli ultimi vent’anni, da Independence Day a Melancholia. Alcuni paesaggi sono scolpiti nel tempo, come in certe cose di Herzog oppure, più vicino a noi, i minacciosi pianeti incontrati in Interstellar. Lo scontro nella neve, superbo, sembra un miracoloso incrocio tra Kill Bill e l’Excalibur di Boorman. Gli interni della nuova Morte Nera gigante sono percorsi dalla luce livida dei migliori quadri di HR Giger. L’approdo al rifugio di Luke Skywalker è qualcosa che sta tra il Signore degli Anelli e la mitologia celtica. Perché questo è il passaggio fondamentale: Lucas attingeva certo alla hollywood classica, ma prendeva soprattutto dai racconti di fantascienza, dai fumetti e dalla propria immaginazione. Per creare una nuova mitologia, evocava le storie che lo avevano appassionato. Abrams, da buon manierista, evoca altri pezzi di cinema, non replica significati ma frammenti e svolazzi stilistici: i volteggi delle astronavi di 2001, le luci di Blade Runner, i mostriciattoli della taverna del primo Star Wars. Lucas andava in profondità per risalire con un nuovo immaginario, con tutte le limitazioni e le manie del genio. Abrams scivola in superficie, potendo pescare immagini che assimilano altre immagini, in un perfetto museo dello stile in movimento. Ha a disposizione tutta la storia del cinema e tutte le immagini degli ultimi cento anni, anche quelle che solo Lucas ha reso possibili. Mi pare il trionfo definitivo di quella che potremmo definire un’estetica hipster, tutto può essere citato purchè sia inserito in un frame perfetto, nessuna scheggia culturale è davvero eccentrica se viene ammantata dalla “coolness” estetica.

 

Hollywood non ama i nerd

In questa storia di tradimenti, recuperi e voltafaccia, non è un caso che il superamento di Lucas avvenga per mano del più Spielberghiano dei nuovi registi, dato che Spielberg, tra i ragazzi della Nuova Hollywood, si era subito distinto per la sua capacità di ricomporre il linguaggio classico dopo il delirio stilistico dei suoi ben più scriteriati compagni di viaggio: se il megalomane Coppola, il sovreccitato Scorsese, il macho Milius, il tormentato Schreder e l’ossessivo De Palma sono possibili solo nel decennio che li ha visti emergere, non sarebbe difficile immaginare uno Spielberg essere se stesso in qualsiasi momento della storia del cinema. Il nuovo Star Wars sembra seguire questa linea: personaggi iconici immersi in una storia appassionante, con contorno di immagini levigate e calibratissime, tutte in qualche modo legate a un effetto di deja-vu (ma dove diavolo ho già visto quella scena o quella luce o quel paesaggio): la rivincita degli Studios sulla Nuova Hollywood portata a termine con la stessa spada laser che per primo Lucas aveva utilizzato, vale a dire la potenza produttiva. Per un attimo gli incrociatori spaziali si stagliano sullo sfondo di quello che sarà per sempre il cielo rosso fuoco di Apocalypse Now.
La linea Spielberghiana, fatta di racconti rigorosi e di immagini misurate, indiscutibilmente superiore e dominante, si vendica sul ragazzo di Modesto che aveva osato inventare un mondo e reinventare il cinema. Le macchine di American Graffiti (un film fatto solo di dialoghi e di movimento) smettono di girare in tondo. Non c’è redenzione per gli outsider, al massimo adattamento al sistema (Abrams), autoparodia (Burton) o rapida trasformazione in icone di stile (Lena Dunham, la morosa di Adam Driver in Girls, che sarebbe stata la vera geniale interprete della nuova Leia-Luke, magari con il bikini dorato delle cortigiane di Jabba).

Non dimentichiamoci che nel codice genetico della saga rientrano tutta una serie di schegge culturali che, con una sintonia prodigiosa con la loro epoca, hanno decretato il successo di Star Wars: una certa consonanza con la cultura americana degli anni settanta, quella cultura pre e post adolescenziale nata dall’attenuarsi delle vibrazioni della summer of love degli anni sessanta. La cultura depressiva dei pomeriggi nelle periferie urbane, con gruppi di ragazzini che fumano canne in camera ascoltando The Dark Side of The Moon, con attorno la paranoia di Nixon, quella del dopo Manson e del dopo Altamont, dello Zodiac Killer e del Vietnam, dello skateboard e dei giochi di ruolo. Affacciandosi sul decennio del successo yuppie, Lucas crea il film iconico degli stonati californiani, tra venature Zen-Orientali, forze primordiali, ribelli spaziali, citazioni dai poster fantasy di Frank Frazetta da cameretta adolescenziale, immaginario rock, tra Zeppelin e Rush, poster pischedelici, culti dell’amore, musica cosmica e erba. Star Wars era anche la sintesi di tutto questo, un ultimo sussulto delle Good Vibrations, il trionfo di un sogno di cambiamento proprio quando ogni cambiamento stava diventando impossibile. È questa confluenza unica di visione di un individuo e di energia storica e sociale ad aver reso possibile una nuova mitologia: una mitologia da loser che per un attimo ha conquistato il mondo. Questa estetica nerd, in qualche modo non assimilabile dal semplice citazionismo postmoderno perché fondata su una forma di disagio sociale e personale (raccontata ad esempio da Charles Burns nel suo Black Hole), è stata soppiantata in modo definitivo dallo hipsterismo: il centro della citazione diventa il semplice segnale stilistico “ben fatto”.

Per qualche secondo ho immaginato che dopo la morte di Han Solo, necessaria e perfetta, il film potesse andare da qualche altra parte. Chewbacca si ferma per guardarsi attorno. Con la voce di William Holden nel Mucchio Selvaggio dice “Let’s Go”. Rey e Finn gli rispondono “Why Not!”. E Abrams fa partire a quel punto un ralenti da Peckinpah mentre il Re dei Wookie, stanco e ferito, e i suoi amici umani iniziano il loro attacco finale. Ma il vecchio Sam è morto da un pezzo e queste cose a Hollywood non si fanno più. Niente rivincita per i Nerd.


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