Star Wars, il risveglio della forza: Life on Jakku?


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La prematura dipartita di David Bowie, starman per eccellenza, mi dà lo spunto di partenza per dire la mia sul Star Wars di J. J. Abrams e partecipare all’ottimo e proficuo dibattito divampato all’interno di Dead Parrot.
So di lanciarmi in un parallelismo un po’ forzato e che può apparire eccessivamente cinico, ma trovo che la storia della carriera di David Bowie dovrebbe essere presa a paragone quando si deve analizzare l’evoluzione di un franchise mediatico talmente di successo da poterlo definire leggendario. A parte Mollica, che al TG1 si è sentito in dovere di ricordare a tutti gli italiani l’esistenza del film Il mio west (pieraccionata che vantava nel cast, oltre “al sempre bravo” Bowie, anche Alessia Marcuzzi e Harvey Keitel, in una grande performance alimentare), nei tanti coccodrilli che si sono seguiti sono state rimarcate molte banalità. La più diffusa è stata sicuramente quella riguardante la poliedricità artistica di Sir David Robert Jones, capace di oltrepassare le decadi cambiando se stesso abbastanza da essere spesso considerato un anticipatore di tendenze. Intendiamoci, è vero: nell’arco di quindici anni, dall’uscita di Space Oddity a Let’s Dance, nel mondo della musica mai nessuno come Bowie ha interpretato tanti personaggi così diversi tra loro. Ma se ci soffermiamo con un po’ di attenzione sulla musica, piuttosto che sul trucco e il taglio di capelli, possiamo tranquillamente dire che in realtà il suo stile non è cambiato, almeno non al punto da diventare irriconoscibile.

Il suo avvicinamento a sonorità nuove è sempre stato strumentale alla produzione di musica bowiana, in particolare durante la citatissima esperienza berlinese con Brian Eno. Guardando il documentario della BBC Krautrock: The Rebirth of Germany, David e Brian appaiono più come degli avventurieri capitalisti che arrivano in un nuovo territorio e utilizzano le guide locali per sfruttare le risorse del luogo e poi fuggire via in cerca di altri posti da spremere più che degli artisti giramondo in cerca di nuove esperienze. Però, ed è proprio qui che volevo arrivare, la grandezza della storia di un artista è anche nel rendere plausibile una narrazione di questo tipo al pubblico, facendogli dimenticare che in realtà non sta ascoltando un esponente d’avanguardia della musica tedesca ma uno dei campioni della musica commerciale mondiale. Per decadi Bowie è stato, e continuerà sicuramente ad essere, un fenomenale esempio di marketing. Un’azienda da 140 milioni di dischi venduti. Una macchina che, oltre a lasciarci grandi canzoni, ha indicato una strada per il successo: cambiare per dare l’idea al tuo pubblico di essere vivo e vitale ma rimanere se stessi quel tanto che basta a far riconoscere il tuo brand.


Possiamo dire che Star Wars ha preso la stessa strada? Evidentemente no. Ma allora, alla luce di quanto detto a proposito dell’epopea del Duca Bianco, come spiegare il clamoroso successo al botteghino e nei commenti di un film come Star Wars, il risveglio della forza che, come ha giustamente sottolineato Mastro Stout, altro non è che un quasi-remake del film originale del 1977? L’unica spiegazione che mi sento di azzardare è che è avvenuto un profondo mutamento nel pubblico, nel modo che esso ha di accettare in maniera acritica, quasi fosse composto da zombie, quello che l’industria dell’intrattenimento cinematografico gli propina. Star Wars di Abrams non è un brutto film, anzi è uno spettacolo per gli occhi ma accettare Rey come una versione patinata e politically correct del vecchio Luke significa, da spettatore, dimenticarsi che questo film dovrebbe essere la continuazione di una trilogia precedente (se non due) e significa anche tradire la storia che quella trilogia ha raccontato e che per tanto tempo hai ammirato. Sarebbe come se Bowie negli anni novanta, col mutuo da pagare sulla villa a Malibu ma truccato perfettamente alla vecchia maniera, se ne fosse uscito con The Return of Ziggy Stardust e avesse sfornato un disco eccellente, pieno di belle canzoni, e i fan avessero semplicemente accettato con gioia quella riesumazione fuori tempo massimo: “Caro David ti paghiamo per non cambiare”. Non sarebbe mai potuto accadere.

Chiaramente non si poteva chiedere ad Hollywood di fare finta per troppo tempo che un franchise come Star Wars non esistesse. Star Wars farebbe guadagnare anche se girato alla maniera di Georges Melies. Il punto è che la discesa in campo di un gigante conservatore come la Disney ha sparigliato le carte rispetto ai decenni precedenti. Prima ai folli visionari come George Lucas e Steven Spielberg che facevano incassare l’industria del cinema si contrapponevano registi altrettanto geniali e folli che rischiavano di far chiudere bottega (Michael Cimino su tutti). Vi era in un certo senso un equilibrio del terrore basato sul fatto che gli autori contavano tanto nella realizzazione di un film, nel suo successo o nel suo fallimento. Hollywood e Disney hanno deciso chiaramente di non voler rischiare più e, per evitare ogni problema, hanno semplicemente tolto la genialità/follia dal piatto della partita mettendo al timone della barca uomini tecnicamente validi e di fiducia, non a caso per Star Wars hanno scelto il miglior mestierante in circolazione. Il pubblico, nella sua componente di massa, è diventato il vero autore di quelle storie scialbe e prevedibili. A differenza del pubblico che bramava le trasformazioni di Bowie, quello che si affolla nelle sale per Star Wars non desidera “ch-ch-ch-ch-changes”, gli basta un grandioso battage pubblicitario. I veri sconfitti di questa rivoluzione nell’industria cinematografica sono gli autori, e in particolare gli sceneggiatori dei film popolari che ormai partoriscono figli non loro, stracolmi di umorismo da quattro soldi e privi di qualsiasi vera drammaticità, Le serie prodotte dalla vecchia televisione e dalle nuove web tv hanno ormai un diritto di prelazione per quanto riguarda innovazione produttiva, solidità della trama, coraggio degli autori e carisma di personaggi (su tutte True Detective). Un personaggio come Finn (il Jar Jar Binks di Abrams) con le battute, i versi e le facce da cabarettista di terza classe su Tatooine e l’uso di oggetti di scena dall’aspetto familiare, come la statua di sale utilizzata al posto di Carrie Fisher per le riprese, non fanno altro che rafforzare la mia idea che questo ormai non è più uno Star Wars per veri starmen.


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