Star Wars e Super 8, il passato retrospettivo


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Che dire della recensione di Mastro Stout se non che tocca appieno i difetti del nuovo Star Wars: la disneyficazione della saga sembra andare verso un facile manicheismo per famiglie, buoni contro cattivi, e il ripensamento del nuovo Darth Vader rispetto ai dubbi davvero amletico-edipici del primo, sembrano più che altro gli scrupoli di un bravo ragazzo che sceglie una cattiva strada. Persino ne la Vendetta dei Sith i toni, per quanto meno mitologici della prima trilogia, sono ben più pesanti (vedi il massacro dei piccoli Jedi, non mostrato e quindi ancora più inquietante). Dopo che Kylo Ren infila Han Solo viene quasi da dargli una pacca sulla spalla per consolarlo…

La mia lettura, in linea piena con quanto dice il Mastro, sottolineava l’altro lato della saga per famiglie, cioè la saga per fighetti o hipster che dir si voglia. Storia conciliante e immagini leccatissime è l’unica formula che una certa hollywood sembra concedersi. Ci tengo a dire che il tono del mio pezzo, apprentemente sfavorevole al buon Lucas, voleva in fondo dire questo: sulla partita del “Mito” non c’è storia, con la prima trilogia Lucas ha fatto quello che forse nessun’altro ha poi replicato dopo di lui: creare un mondo, e quindi un mito, col suo contorno di riti e celebrazioni. Sulla partita del cinema forse Lucas ha mostrato una cosa prevedibile: è più grande come generatore di miti che come “regista puro”. Abrams, libero dal mito (perché forse ha dato tutto con Lost) si limita a creare un grande caleidoscopio visivo. Che può piacere (a me è piaciuto abbastanza) ma che se viene messo vicino alla vera fonte originaria della forza si riduce a gioco intorno a quella che è appunto la coolness. Mastro Stout mi ha ben sgamato su questo: è verissimo che il carisma del povero Kylo Ren è nullo se lo mettiamo vicino al mascherone nero originale. Uno è un mito e l’altro una riattualizzazione. Ma il senso del lavoro di Abrams mi sembra proprio questo: se al mito non si arriva, almeno creiamo delle immagini “perfette”, circondate da una specie di aura mitica artificiale, come capita con quegli artisti grafici che rivisitando l’estetica di Star Wars creano delle immagini stilisticamente più raffinate rispetto a quelle del film stesso. In questo il ragazzone Driver è il più carismatico: è un attore “vero” (mentre, mi perdonino i fan del patatone, Hayden Christensen era più che altro una specie di puro spazio vuoto in attesa di essere colmato dal male che tutti sapevamo sarebbe arrivato). Il primo Darth Vader faceva paura come un babau: una maschera, magari anche fatta non benissimo (vedi il primo film) ma che proprio per questo è davvero l’incarnazione del male. Due cose molto diverse.

In questi giorni ho continuato a fare qualche esplorazione in questo territorio. Per esempio mi son rivisto Super 8, per rispondere a una domanda che mi gira in testa da tempo: perché questo film, che in fin dei conti è piuttosto mal riuscito e a suo modo Disneyano, è riuscito a emozionarmi? Perchè, e parlo della prima parte, è una specie di condensato degli anni fine settanta/primi ottanta come non sono mai stati. Posso dire che io c’ero, e che degli anni 70-80 così perfetti non sono mai esistiti. Eppure sono resi da Abrams con una forma di eleganza retrospettiva che li rende commoventi. Un po’ come andare a una fiera in cui trovi proprio tutto, il cubo di Rubik (che non sono mai riuscito a risolvere), le magliette con gli accostamenti di colori impossibili, il mito spaziale dello shuttle, i poster di Halloween, i modellini da costruire, i mostri. Abrams ha creato un contesto così perfetto (e finto) da spingere a vederci anche le cose che non ci sono, per noi che non andavamo in una high school al ritmo di My Sharona: Zaccagnini al giornale radio, Heidi alla tv, Alfredino nel pozzo, Goldrake, Giochi senza Frontiere. In questo sta la sua bravura e il suo limite: è un grandissimo arredatore di interni narrativi e mentali, ma un creatore abbastanza limitato. Riempie spazi cinematografici di oggetti e immagini che rinviano a un passato mai davvero esistito offrendone una versione distillata e purificata (come Elle Fanning, specie di archetipo della ragazzina di cui non ci sarebbe potuti non innamorare alle scuole medie). Non corre il rischio di cercare di mostrarci qualcosa di nuovo e genera un perfetto passato retrospettivo (e qua dovrei ricollegarmi a quanto dice Duffo sulla ripetizione come strategia di brand, ma ci tornerò sopra in un altro articolo), con un’operazione che assomiglia a quella di certi pittori iperrealisti americani: la perfezione come una sorta di maschera mortuaria. La riproduzione che diventa allucinazione, il dettaglio ingrandito fino alla vertigine.

Nel commento a Super 8 viene fuori un ragazzino che faceva gli stessi filmetti poi messi in mano ai suoi protagonisti. Anche lui era un nerd, ma con una differenza. Buona parte dei tizi che poi hanno girato attorno a lui, dal produttore al direttore della fotografia, erano come lui degli appassionati di Super 8 e si sono conosciuti ai festival del settore. Questa forse è la differenza: Abrams era un nerd in un mondo che aveva riconosciuto il potenziale dei nerd, al punto da fare festival dedicati a loro. I primi nerd, quelli che davvero sono impazziti col primo Star Wars, si erano trovati in mondo che per la prima volta era il loro ma, per così dire, era un mondo ancora primordiale, non organizzato. I nerd e gli outsider non erano ancora diventati possibili target di mercato e non erano ancora stati riassorbiti dal sistema (provo ad azzardare mettendo un altro elemento, tutto da discutere: la creazione dell’outsider come target avviene in modo definitivo nei quindici anni che stanno tra il primo Star Wars e Smells Like a Teen Spirit dei Nirvana in rotazione su MTV, passando per i primi videogames casalinghi). Abrams in questo è uno spielberghiano, l’uomo di successo che occupa uno spazio che una volta era destinato a chi successo non poteva averlo. Lucas stava forse nel punto in cui qualcosa di davvero “eccentrico” poteva ancora essere possibile. Se guardo Coppola o Milius o il primo Lucas o Carpenter vedo degli outsdier che arrivano a Hollywood come un branco di maleducati che fanno casino. Se hanno successo è quasi loro malgrado. Se guardo Abrams vedo un outsider che fin da subito ha le idee ben chiare su come diventare mainstream. Con la nuova hollywood gli outsider hanno quasi scalzato il sistema, con Abrams il sistema si è allargato quel poco che bastava per accoglierli come potenziale galline dalle uova d’oro.

Ultimissima considerazione. Nel mio culto dei perdenti, la più bella evocazione degli anni ottanta alternativa a quella di Super 8 sta in una scena di The Wrestler: il vecchio lottatore ormai in rovina si ritrova in una tristissima saletta di municipio, al freddo, con altri vecchi lottatori disastrati, a firmare autografi e a vendere cimeli per un gruppo ridotto di nostalgici. Questo è un passato che nessuno racconta: vecchi vhs che forse non girano neanche più, pupazzetti invenduti, foto ingiallite, una polaroid con il flash usa e getta. Il contrario della perfezione retrospettiva, una specie di rumore di fondo, una nebbiolina che sfuma la percezione, un colore sgranato che rende il ricordo quello che è davvero: un bordo sfrangiato che scontorna le cose, come se ci fosse un difetto della messa a fuoco.


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