Possessioni sonore
100 modern soundtracks


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Una delle cose più belle che possiamo attenderci da un libro è che ci faccia percepire le cose in modo diverso dal solito. Non succede spesso però di imbattersi in libri del genere, e quando capita è davvero come incontrare un altro mondo, entrare in un territorio inesplorato, iniziare a muoversi cercando di trovare nuovi punti di riferimento. Mi sta capitando con 100 modern soundtracks di Philip Brophy, un volume edito dal BFI nel 2004 e da tempo esaurito. Brophy è un regista, un musicista e un sound theorist che si è occupato tra l’altro di anime giapponesi e di cinema horror. 100 modern soundtracks è la sistematizzazione di un lavoro che Brophy aveva iniziato negli anni novanta con una serie di articoli dedicati alla “storia segreta della musica da film” usciti su The Wire.

Il titolo del libro è fatto apposta per portare fuori strada il lettore, e anzi, capendo il vero senso del titolo possiamo iniziare a seguire lo spostamento della soglia percettiva che Brophy opera: 100 colonne sonore non significa 100 esempi di “musica da film” nel senso abituale del termine, ma 100 film nei quali la soundtrack interviene sull’immagine generando degli effetti anomali in colui che guarda e ascolta. La colonna sonora è una specie di oggetto chimerico, fatto di molte cose: musica, certo, ma anche suoni, rumori, voci, dialoghi, respiri, silenzi. Un film ci parla anche quando il suono è assente, un film risuona attraverso la saturazione sonora, un film veicola emozioni attraverso le canzoni, l’incastro tra parola e immagine genera false direzioni e ingarbuglia le piste.

Boogie Nights di Paul Thomas Anderson

Brophy sceglie quindi 100 casi in cui i livelli di complessità della soundtrack si incrociano, a volte portando al limite uno degli elementi compositivi, altre volte creando un ibrido sonoro di musica-rumore e voce, ma soprattutto generando un effetto specifico sullo spettatore: lo fa diventare, spesso in modo inconsapevole, in primo luogo un ascoltatore. E a volte a generare questo effetto possono essere non solo i capolavori riconosciuti, come Metropolis o Stalker, ma anche opere che sconfinano nella serie b, come Carnival of Souls o il Pianeta delle scimmie o addirittura sprofondano nel porno trash conclamato come Beyond the Valley of the Ultra Vixens di Russ Meyer.

Nella concezione ipermaterialista del suono di Brophy, tutti quegli elementi che di solito vengono presi in considerazione nell’analisi di un film, le inquadrature, la fotografia, i dialoghi, la narrazione, vengono messi a soqquadro dall’irruzione di elementi sonori che, attraverso effetti specifici di sound design, creano delle linee di percezione che possono rafforzare quello che succede nelle immagini, ma il più delle volte si manifestano attraverso impatti decostruttivi. La visione viene smontata, alterata, fatta mutare dal suono.

Elementi a volte trascurati diventano centrali in questa modalità di relazione con la dimensione sonora: gli esperimenti sulla natura del suono, l’importanza della natura spaziale della percezione sonora, l’accumulo dei rumori, l’uso delle canzoni, l’irruzione dell’elettricità, la grana della voce diventano delle modalità attraverso cui il suono viene veicolato, generando nello spettatore/ascoltatore modalità di immersione che vanno al di là della ricezione abituale o delle modalità di lettura e interpretazione di tipo narrativo. Lo spettatore, sospinto in queste camere sonore fatte di rumori, musiche, silenzi, grida, entra in connessione con la natura vibrazionale del suono. Nello spazio cinematografico, questo strano grembo saturo di effetti acustici, abbandoniamo gli ancoraggi abituali, perdiamo la centralità del punto di osservazione e diventiamo dei ricettori di effetti sonori, circondati da un flusso fatto di musiche sparate a tutto volume anche in maniera incongrua (come in Suspiria), onde radio che segnano un particolare momento storico accompagnando i personaggi nei loro percorsi incrociati (American Graffiti), melodie di canzoni che generano un livello di montaggio alternativo a quello visivo, generando situazioni di contrasto, contrappunto, rinforzo, dissociazione (come in Boogie Nights), suoni ambientali e minacciosi ronzii che creano uno spessore amorfo in scene d’interno apparentemente silenziose (Lost Highway). L’autore parla di una specie di animismo, una modalità di canalizzazione dell’energia che eccede le letture troppo razionali o psicologizzanti. La psicoacustica genera possessioni, i rumori vibrano nel corpo, la saturazione confonde i piani di ricezione, l’elettricità ci attraversa. Ed è allora che le cose iniziano a entrarci nelle orecchie e da lì nel cervello, facendoci percepire una realtà diversa.

Poster alternativo di Alain Bossuyt per 1997: Fuga da New York di John Carpenter

Tra le 100 soundtracks analizzate da Brody – ma è un’analisi che cerca di muoversi sul filo della suggestione percettiva, più descrizione di quello che succede a chi entra in questo circuito sonoro che racconto di quello che succede sullo schermo – ci sono alcune presenze ovvie – La conversazione, Blade Runner, Psycho, Playtime – e una serie oggetti sonori non identificati che, all’improvviso, diventano degli acceleratori percettivi, corpi di suono pieni di strappi e cicatrici capaci di innestarsi nell’ascoltatore generando ulteriori livelli di cambiamento interno. Ecco allora Scarface, film discoteca, ipercinetico e paranoico, in cui la musica disco crea uno spazio sonoro eccessivo ed edonista, diventando il riflesso acustico della parabola a base di coca, sudore e poster con le palme di Tony Montana. Oppure 1997Fuga da New York, in cui le note del sintetizzatore (courtesy di John Carpenter e Alan Howarth) appaiono come brevi punteggiature minimaliste che sembrano decomporre la linearità narrativa amplificando il senso di ansia e di degrado. Come una specie di contatore geiger, dice Brophy, le pulsazioni monofoniche accentuano il senso di inumanità del sintetizzatore, lo strumento che può diventare tutti gli strumenti ma che in questo caso si riduce a una semplice macchina che lancia segnali in uno spazio ridotto a strade deserte e grattacieli in rovina.

E questa è una delle linee di lettura più interessanti del libro: contrariamente a quello che capita con certe tipiche colonne sonore basate sul’utilizzo dell’orchestra (secondo una paradossale idea per cui una colorazione tipicamente ottocentesca è la più adatta per sonorizzare quella che è l’arte per eccellenza del xx secolo) che hanno l’effetto di normalizzare, depotenziare e ridurre l’effetto dirompente della soundtrack, è proprio dall’incontro con la sgradevolezza del suono che possono attivarsi effetti di potenziamento e mutazione che riverberano sulla totalità del film. La decomposizione sonora del Satyricon di Fellini, con flussi di voci che non vanno da nessuna parte e un miscuglio di sperimentazioni ellettroacustiche miste ad arcaismi esotici, è l’amplificazione della decadenza raccontata dalle immagini; la celebre accoppiata tra hi-hat e chitarre wah wah di Shaft è la vera affermazione del black power nel suo eccesso stilistico spavaldo e strafottente che sembra offrire la città al detective nero in una specie di cartografia sonora; i frammenti musicali che appaiono all’improvviso, come suoni alieni privi di logica narrativa, in Angel Dust di Sogo Ishii sono l’intermittente materializzazione (o smaterializzazione) della perversa logica a specchi deformanti di un noir urbano postmoderno.

Akira di Katsuhiro Otomo

Ma quella della soundtrack è più che mai un arte del tempo, ed ecco Akira, in cui l’apocalisse postnucleare viene presentata attraverso un lavoro sulla dissociazione e sul ritardo che sconnette suono e immagine. Le esplosioni prendono forza arrivando sempre in ritardo rispetto a quello che vediamo sullo schermo, come se si caricassero di una potenza che l’immagine non può rendere. O ancora, in quello che è uno dei grandi classici del lavoro sul suono come elemento perturbante, l’arrivo del male, nell’Esorcista, è annunciato e anticipato da improvvise incursioni rumorose che rompono la quiete suburbana e preparano per l’arrivo di ben altri suoni e altre voci. Una tazza si rompe, un claxon suona all’improvviso, una porta sbatte. Lo spazio sonoro altera lo spazio fisico insinuando un disagio progressivo, fino al momento in cui l’irruzione del maligno mette sottosopra la quiete familiare. La battaglia, a quel punto, si sposta sul corpo di Regan, ed è in primo luogo una battaglia per il controllo della voce, una possessione sonora che diventa il “rumore dell’Altro”, che ruba il corpo della bambina e le impedisce di parlare con la sua voce.


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