Ought, passione e calzini


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Ogni tanto la malinconia di fine estate lascia il posto alla sorpresa di qualche incontro inatteso. Non avevo alcuna particolare aspettativa per gli Ought, espatriati americani (più un australiano) arrivati in Canada per trovare Università a basso costo, chiamati a chiudere il Soundpark di quest’anno. E invece, personalmente, uno dei concerti più belli degli ultimi tempi, con i quattro a presentare sia il già classico album More Than Any Other Days, del 2014, sia il nuovo Sun Coming Down, in arrivo se non sbaglio in questi giorni.
Gli Ought pubblicano per la Constellation Records, sigillo di qualità quebechiano, la label dei Godspeed You! Black Emperor, di altri campioni del Post-rock (ammesso che questo termine voglia ancora dire qualcosa) e di solitari esploratori come Carla Bozulich. Va detto però che, a parte qualche dilatazione a base di tastiere atmosferiche e piccole incursioni rumoriste, gli Ought stanno decisamente dentro un approccio che per comodità potremmo chiamare post-punk. Chitarre taglienti, basso che si fa sentire e ogni tanto detta la melodia, viaggiando sia per oscurità alla Peter Hook sia per propulsioni quasi funky, batteria secca e grintosa, tastiere che punteggiano il tutto e voce straniata e un po’ stonata a coronare il tutto. Suono molto staccato, a strati, con quel respiro che fa appunto molto gruppo inglese dei fine settanta inizio ottanta.

Eppure, nel loro mix, gli Ought sono estremamente americani, dato che si possono trovare squillanti accelerazioni alla Feelies (fantastica e trascinante “The Weather Song”), decadenze newyorkesi di matrice Television, qualche apertura appassionata stile Dischord – qualcuno ha fatto il nome dei Fugazi, e perché no, con quei testi esistenziali e fortemente vissuti che fanno molto introversione del primo emo-core (la semi title track “Today, More Than Any Other Day”). Ci sono anche pezzi che si ricollegano direttamente ai Talking Heads degli inizi (“Habit”, nervosa e lirica), sapori da Minutemen, con un approccio comunque autoriale, in cui i ritmi e i testi si equilibrano trasmettendo un forte senso di passione e urgenza, senza quella patina arty che ogni tanto gli inglesi si portano dietro.
Su disco notevoli e dal vivo trascinanti, col cantante-chitarrista Tim Keen che sembra un incrocio tra Jarvis Cocker e il bambino del Sesto Senso (Duffo dixit), un po’ inquietante, con quel misto sfigato-sexy da Jarvis, anche se la faccia è da ragazzino su corpo impacciato e magrissimo. Oltretutto, con la strana abitudine di togliersi le scarpe e suonare in orrendi calzini blu. Un bassista, Ben Stidworthy, che tiene su il tutto e ha i capelli e lo sguardo tenebroso da attore di film adolescenziale anni ottanta, il batterista Tim Darcy che suona e ride, con attitudine punk-funk, e un incredibile tastierista, Matt May, che rifila colpi di karate al suo strumento, come Irmin Schimdt dei Can ai bei tempi, e si rovina la spalla a forza di botte sui tasti. Il pubblico gradisce, io e il Duffo pure. Memorabile la pronuncia del cantante, “Zeng iu veri macc”, che fa emergere oscuri sospetti sulla sua provenienza.


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