Ma c’è ancora partita?


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Mastro Stout
Nel senso: ma i fumetti di casa nostra possono ancora dire la loro, in maniera importante, nel mondo dei comics attuale? La risposta che mi sorge spontanea è particolarmente pessimistica.
Ho iniziato a leggere con i fumetti, ben più di 30 anni fa. All’epoca il panorama editoriale era composto, prevalentemente, dai fumetti della (futura) Sergio Bonelli Editore e dagli albi di supereroi delle compiante Corno e Cenisio. Il tutto, ovviamente, presente solo nelle edicole poiché le fumetterie erano ancora di là da venire. Di manga neppure l’ombra, se non qualche esperimento/semi-scopiazzatura prodotto alle nostre latitudini e che metteva in scena le vicende dei robottoni nagaiani. Questa premessa solo per dire che, ahimè, a questa età, posso tranquillamente dire di aver letto un numero impressionante di storie narrate attraverso questo medium, negli anni avvicinandomi anche a scuole di fumetto particolari, forse maggiormente “adulte”, quali quelle argentine e franco-belghe.

Se ora, proprio ora, guardo alcune delle collezioni esposte nella mia libreria, vedo un po’ di tutto e quasi tutto mi provoca un’emozione. Tuttavia, se dovessi stilare una sorta di classifica emozionale personale, temo proprio che i fumetti italiani, nella maggior parte, finirebbero nelle ultime posizioni. Precisiamo: non parlo di autori indiscutibili quali Pratt e Magnus o, per venire ai giorni nostri, Carnevale e Baronciani. Parlo di fumetto italiano cosiddetto popolare.
Sono stato un avido lettore dei Bonelli, per almeno un ventennio. Poi, e il buon Duffo lo sa, mi sono allontanato da questo universo, arrivando anche a polemizzare con un autore celebre della Casa in occasione di un incontro pubblico di qualche anno fa. Senza entrare in discorsi tendenzialmente infiniti, incentrati sulla qualità media delle storie prodotte dalla SBE da anni a questa parte, sulla nascita di continui personaggi ben poco carismatici (qualcuno ha detto “Ultimate Mister No?”) o comunque dalle fortune editoriali a dir poco altalenanti, la mia critica è, se si può definire così, emozionale. Dove sono i Death Note in casa Bonelli, dove si trovano l’epicità e il sense of wonder della JLA, vi è nel suo ormai sterminato catalogo la profondità delle graphic novel di Mazzucchelli?

Se dovessi salvare un personaggio di Via Buonarroti, non avrei dubbi: Zagor. L’unico character che ha saputo rinnovarsi pur nel solco di una gloriosa – e lunghissima – tradizione. Ma che dire delle recenti riletture di Nathan Never e Dyland Dog? E dei nuovi Saguaro (per usare un’espressione degna di Tex, già giunto al termine della pista) e Orfani? Ma c’è originalità in essi, nelle loro vicende, anche nei loro disegni? Scatenano passioni o, più facilmente, sbadigli alla lettura?
Anche se ne abbiamo parlato spessissimo in questi anni, sono curioso di leggere la tua opinione, Duffo.

duffogrup
E io ti rispondo Mastro Stout, continuando questi interessanti esperimenti di post quadrumani dedicati al fumetto, facendo uso di una metafora: la Bonelli Editore è la FIAT del fumetto italiano e come tale ha sempre determinato lo stato e le tendenze di questo media nel paese. Il paragone calza e non solo per la grandezza dell’azienda, per i ritmi di produzione da catena di montaggio che vi sono praticati e per la varietà e pervasività dei suoi prodotti nelle edicole italiane ma anche perchè l’azienda ha sempre esercitato fascino e forza di gravità verso gli artigiani delle piccole officine di provincia. Tutti ricordiamo la serie Un uomo un’avventura, prodotta dalla Bonelli, dove Toppi, Pratt, Battaglia, Micheluzzi, Crepax, Bonvi ed altri davano vita ad uno dei più riusciti tentativi di mettere insieme i mezzi di una grande casa editrice con l’opposto della serialità: il fumetto d’autore. Un po’, per tornare alla metafora automobilistica, Un uomo un’avventura può essere paragonato a quello che fu la Abarth per le macchine FIAT.

L’artigianato di qualità che si sposava perfettamente con il prodotto della grande industria. Eppure, come per le derivazioni uscite dalla carrozzeria dello scorpione, questo tentativo non ricevette (e non riceve ancora) il giusto riconoscimento di pubblico e critica. Bonelli si fondava all’epoca essenzialmente sul fumetto di avventura prebellico. Legato allo schema classico introdotto dalla trasposizione fumettistica dei Tre Moschettieri che Gian Luigi Bonelli fece dando vita a Tex, il fumetto bonelliano si sviluppa nel ventennio ’40-’50 seguendo binari consolidati. Il comandante Mark, Piccolo Ranger e pure Zagor e Mister No, che per alcuni versi sono innovativi per esempio nel evitare un facile manicheismo, sono eroi classici dell’avventura. Questi albi in Italia vanno e vanno forte per tutti gli anni ’60 e ’70 e si continuano a vedere interessanti sperimentazioni come il Ken Parker di Berardi e Milazzo, personaggio che anticipa di poco una nuova ondata. Con gli anni ’80 e ’90 infatti anche in Italia arrivano (finalmente) gli eroi problematici. Dylan Dog, Martin Mystere (il cui maggior problema sono sicuramente le logorroiche spiegazioni) , Nathan Never, Julia, Magico Vento sono personaggi che, con alterne fortune, riescono a cogliere un senso di maggiore ambiguità ed irrequietezza rispetto al tempo in cui “vivono”. Le sceneggiature, tra cui spiccano in particolare quelle di Tiziano Sclavi per Dylan Dog, sono infarcite di citazioni, riferimenti culturali che consentono una lettura multilivello in pieno stile postmoderno. Anche questa nuova versione del fumetto bonelliano ha molta fortuna tra il pubblico. Probabilmente troppa fortuna.

Come dicevo, la Bonelli è come la Fiat e proprio come la casa automobilistica di casa Agnelli, anche la casa editrice ad un certo punto si ferma. Comincia a produrre sempre le stesse utilitarie, che danno un incasso sicuro ma che sono sempre meno competitive rispetto ai modelli esteri (in particolare subisce brutalmente il successo dei supereroi americani e dei manga giapponesi). Certo vengono prodotte ancora fuoriserie da collezione come i Texoni di Kubert e Magnus ma in generale i nuovi modelli (Bred Barron, Gregory Hunter, Jonathan Steele, Dampyr) o nascono male o non vengono supportati a sufficienza e le testate cominciano a chiudere una dopo l’altra. Alla base di questa crisi c’è’ un problema sicuramente industriale, nel senso che l’azienda, soprattutto dopo la scomparsa di Sergio Bonelli, è parsa smarrita di fronte ad un mercato nuovo. Probabilmente in precedenza era diventata troppo grande e ormai troppo rigida per cambiare velocemente. Ingiustificabile però è stata la mancanza, in tanti anni, di ogni tentativo di dare battaglia per la salvaguardia di un mezzo espressivo importante come il fumetto in Italia, lasciando alle fiere e manifestazioni varie questa immane incombenza. E questo atteggiamento pilatesco lo pagò non solo Bonelli ma anche tutte quelle case editrici più o meno piccole che, in tempi di vacche grasse, vivevano delle sue briciole. Il venir meno del fumetto italiano popolare dalla tua personale classifica emozionale, Mastor Stout, purtroppo è il frutto di questo declino. Non basta un John Doe o un Rat Man per far girare la corrente e segnare un punto in questa partita, serve una nuova generazioni di giocatori.


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