L’uomo medio distopico (Parte I)


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Riparto dall’immondizia. Non solo l’immondizia vera e propria ma anche quella umana. Quella rappresentata da chi, senza farsi alcun problema, si disfa della prima nei modi più disparati ma rigorosamente contrari alla legge: dal banale apro il finestrino dell’auto e getto il rifiuto in corsa, al più originale metto tutta la rumenta di casa indifferenziata nel sacchetto del supermercato e lo ficco a forza dentro al primo cestino pubblico che trovo per strada (o in autostrada, come mi è più volte successo di vedere).
Mentre faccio jogging vicino casa, su una strada di campagna che costeggia una statale, mi imbatto in una discarica improvvisata di plastiche, cartacce e mascherine buttate sull’erba del terrapieno, in corrispondenza di un’area di sosta, presumibilmente da svariate decine di stronzi. Evidentemente i suddetti non riuscivano proprio a tenersi quella roba in macchina un minuto di più. Nei mesi scorsi quella pattumiera a cielo aperto non c’era e mi ritrovo a pensare come il lockdown abbia abbassato ogni livello di pudore nel modo di comportarsi, d’altronde tutti questi mesi al chiuso ci hanno fatto passare in poco tempo dal girare per casa in jeans al farlo in tuta e da questa alle mutande. Dal barbiere ogni 2 mesi, a pettine e gel davanti allo specchio del bagno, per finire coi nidi di rondine tra i capelli. Questa trasandatezza a quanto pare si è trasferita anche nell’etica di come viviamo il mondo. E dopo questo pensiero faccio una considerazione che mi inquieta: come sarebbe bella una società di individui che rispettano la legge solo perché è giusto farlo. E se uno sbaglia, zac! Se uno abbassa il finestrino e butta la mascherina, zac! Se uno parcheggia dove non deve, zac! Se uno anche solo ci pensa, zac! Insomma mi accorgo che sto pensando con invidia ad una società non molto diversa da quella descritta da Orwell in 1984 (di cui incidentalmente sto ascoltando l’audiolibro). E’ veramente possibile pensare in chiave utopica ad una società nata nella mente del suo creatore per essere l’esempio più aberrante di distopia?

Chiaramente Orwell scriveva 1984 in pieno stalinismo, le sue paure e le sue visioni erano molto più reali di come le possiamo percepire noi oggi. Aveva un esempio concreto di cosa era diventata la fattoria quando i maiali avevano fatto fuori gli altri animali dopo la rivoluzione. Però se pensiamo a singoli fattori originari e fondanti di quella stessa rivoluzione, elementi come l’egualitarismo giuridico dei cittadini, la parificazione delle condizioni economiche degli individui più poveri e il ristabilimento dell’ordine da una situazione di caos, anche violento, non si può negare che gli stessi si inserirebbero perfettamente anche nella genesi di una società utopica. Insomma una società fatta di individui uguali che lavorano produttivamente e che rispettano le stesse leggi paradossalmente diventa allo stesso tempo un mattone costitutivo di una società utopica e di una distopica. Come se un esercito di uomini-compagni-robot racchiudesse dentro sé i semi di un mondo ideale e terribile allo stesso tempo.
Da un punto di vista dell’immaginario narrativo popolare contemporaneo però questa duplicità non è stata mai considerata con l’attenzione che avrebbe meritato. L’individuo comune è una figura di contorno delle grandi narrazioni distopiche post 2000. I romanzi e i film di Hunger Games e Divergent ruotano attorno alle gesta delle loro protagoniste, che “divergono” appunto dal resto dei cittadini. E’ vero che spesso in questo tipo di narrazioni il popolo partecipa alla ribellione e, a seguito di questa seconda rivoluzione, si viene a generare una nuova utopia (con aspetti simili alla nostra realtà, alla faccia dell’autoconsolazione) ma questa partecipazione in realtà avviene solo in seguito alla rottura delle regole che l’eroe ha iniziato. In Matrix Morpheus arriva ad affermare che coloro che stanno ancora dormendo all’interno di Matrix vanno considerati come nemici potenziali, naturalmente fino al risveglio che porterà loro il politburo dei rivoluzionari. I simbolismi abbondano. In queste storie la spinta che porta una società totalitaria e repressiva, costituita nella sua quasi totalità da uomini medi rispettosi delle regole, a diventare una società libera e condivisa passa necessariamente per la rivolta violenta del protagonista. Queste narrazioni presumono che quelle stesse regole, a volte frutto di scelte passate persino condivisibili, siano diventate oppressive e non possano essere più cambiate proprio perché al popolo, e ai singoli uomini che lo compongono, manca quella spinta a romperle che invece possiede l’eroe. Nel film Ember – Il mistero della città di luce, la popolazione di questo kolchoz sotterraneo accetta con cieca rassegnazione il dettame dei leggendari Costruttori di rimanere a vivere sottoterra. Il limite di questo auto esilio dalla superficie terrestre va perso nell’ideologia che quello di Ember sia l’unico modo possibile di vivere anche a discapito di non comprendere quale era il vero significato di quel primo gesto rivoluzionario. I cittadini di Ember accettano pacificamente il razionamento dei viveri e le continue mancanze di energia accontentandosi di celebrazioni musicali dello splendore della loro città e crogiolandosi nella sicurezza di una suddivisione lavorativa dove ognuno ha un posto di lavoro sicuro. Praticamente degli androidi. Arrivano persino ad accettare con fervore il dominio su di loro di una figura indubbiamente staliniana rappresentata dal sindaco, Bill Murray, con un aiutante in perfetto stile Beria, interpretato da Toby Jones.
Naturalmente anche in questo caso sono due giovani maverick a rompere lo status quo, due freak che capiscono che in quello stato di cose qualcosa non torna. Come per Neo in Matrix, anche per Lina e Doon in Ember, per Katniss in Hunger Games, per Tris in Divergent e così via, possiamo applicare le parole rivelatrici dell’Architetto:“La tua vita è il prodotto di un residuo non compensato nel bilanciamento delle equazioni inerenti alla programmazione di Matrix: tu sei il risultato finale di un’anomalia che nonostante i miei sforzi sono stato incapace di eliminare da quella che altrimenti è un’armonia di precisione matematica.” Matrix è perfetta nella sua falsità, l’imperfezione è la ricerca di verità.
(continua)


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