Degli eredi di Eva, di continuity vs retcon e delle pudenda bonelliane


di

Ispirato dall’ennesima chiacchierata di stampo fumettistico, ricca di spunti e pensieri da “nerd storming”, avuta con il buon Duffo in quel di “Pordenone Comics/Naoniscon” 2016 e nelle settimane successive all’Evento, mi accingo a gettare nel medesimo calderone virtuale alcuni dei temi di discussione più vivaci reperibili in forum, blog, siti web, mostre mercato e passaparola più o meno live relativi ai mondi della Nona e della Decima Arte, il tutto mescolato con un po’ di sana polemica relativa ai fumetti di casa nostra. Insomma, un misciòt, come si dice dalle mie parti. Magari ne vien fuori qualcosa di interessante…

Primo rullo di tambur(ell)i: i successori di “Neon Genesis Evangelion”. Secondo: la morte della fantasia in casa Bonelli. Terzo: la temuta continuity contro la detestata continuità retroattiva. Gli ultimi due, in un certo senso, son argomenti che si sfiorano in determinati periodi storici, si tengono per mano in altri e si compenetrano in altri ancora. A parte l’immagine vagamente sessuale dell’ultima locuzione, cercherò di spiegarmi nel modo migliore.

Assumendo la posizione de “Il Pensatore” di Auguste Rodin, pongo a me stesso una prima domanda molto secca: “Ma perché?”. Un passo indietro. Siamo nel Paese del Sol Levante ed è il 4 ottobre del 1995. TV Tokyo manda in onda la prima puntata di “Shin seiki Evangerion”, letteralmente “Il vangelo del nuovo secolo”. Un vero accadimento di dimensioni bibliche. Da quel giorno, prima con i suoi 26 irripetibili episodi, poi attraverso i suoi apocalittici film, il mondo dell’animazione giapponese – e quindi mondiale – mutò per sempre. Bambini che vivono nella realtà ma completamente fuori dal mondo, bambini pazzi, bambini che muoiono e/o escono mutilati dalle battaglie (e impazziscono anch’essi), cloni di madri cacciati dentro robot giganteschi, robot pertanto “umani” che, fondamentalmente, sono pazzi pure loro (perché gli adulti sono dei folli, è ovvio, no?). Sangue, distruzione, tradimenti, morti, baci della morte, morte dell’innocenza. Ciak finale: una spiaggia, un mare di sangue, in senso letterale, e 2 (2?) sopravvissuti (sopravvissuti?). Fine. Titoli di coda. Respirate. Capolavoro immenso, non replicabile in alcuna maniera. Il suo geniale artefice, Hideaki Anno, figura incredibile della Decima Arte, passato attraverso depressioni fortissime e salvato dal Maestro Miyazaki, è ora al lavoro su un’altra epopea di distruzione cinematografica, questa volta live-action: “Gojira”. Torno alla domanda iniziale del paragrafo, esplodendola: “Ma perché, perché l’industria degli anime tenta ogni tot anni di clonare questo capolavoro?”. È lapalissiano che il risultato sarà sempre inferiore, sempre. Sono passati ben 21 anni. Probabilmente gli studios nipponici puntano a creare un Evangelion per ogni generazione, sperando di riprodurne almeno in parte il successo (economico in primis, ovvio). A onor del vero, le opere che si ispirano fortemente al magistrale lavoro di Anno non sono mai delle vere scopiazzature, tendendo principalmente a riprendere gli elementi narrativi e iconografici che credono essere alla base di quel successo. Ciò che i produttori non comprendono appieno è che non potranno mai essere i primi a scardinare e rivoluzionare le regole scritte e non scritte dei cartoni animati giapponesi. Al massimo, riusciranno ad essere i secondi o i terzi.

Mi alzo nervosamente dalla posizione del pensatore, con ancora negli occhi le immagini più forti di “Shin seiki Evangerion” e… mi scappa un sonoro sbadiglio al pensiero delle righe che ora vergherò. Si parlerà di beghe del nostro cortile.

“Conversazione immaginaria (e assai polemica) con un autore Bonelli”: questo il titolo di un post che da anni fa capolino nella mia mente e che prende spunto da un reale scambio di opinioni avuto qualche anno fa nel corso di una conferenza il cui ospite principe era Antonio Serra, ossia uno dei tre sodali della cosiddetta “banda dei sardi” della casa editrice. Come può capitare nella vita di tutti i giorni con parenti e conoscenti, anche nel campo delle nostre passioni artistiche le delusioni recateci da figure che consideriamo vicine seppur lontane dal punto di vista di una conoscenza in prima persona, diretta, con le quali si instaura nel tempo un rapporto di – direi – fiducia, possono colpirci fino a portare a cocenti delusioni. La collana di Nathan Never fu per me esattamente uno di questi casi. Una bella storia di fantascienza finalmente dai natali italiani, abbellita da disegni moderni e da sceneggiature ricche di terminologie tecniche, dotata di un immaginario tecnologico affascinante forse mai visto prima nella Nona Arte di casa nostra. Eppure, nell’arco di qualche anno (non pochissimi, fortunatamente), questa montagna ricca di picchi partorì qualcosa di simile a… una pantegana, diciamocelo. Dico giusto tre cose: personaggi e villain interessanti accantonati bruscamente e/o stravolti; una povertà di idee sempre maggiore che portò alla messa in scena di vicende molto, troppo simili agli elementi portanti di alcuni manga robotici (non vorrei utilizzare il termine “scopiazzatura” ma insomma…); una sorta di autocensura in tema di violenza e sesso pur dopo alcuni timidi tentativi di maggiore realismo su tali tematiche, fatto che tuttavia colpì l’intero parco testate bonelliane dopo la sbornia dei primi anni di storie di Dylan Dog. Il brutto elenco potrebbe proseguire ma non voglio andarci troppo pesante. La delusione comunque fu forte, inutile negarlo, tanto che smisi di collezionare la serie. Quando mi capitò il confronto con Serra, non gli esposi tutti i punti appena descritti ma “riassunsi” il concetto, sottolineando come da tempo non seguissi più la sua creatura fondamentalmente a causa di racconti non più emozionanti e originali. L’unico riscontro che ebbi fu un moto di stizza da parte dell’autore – cosa comprensibile, ci mancherebbe altro – il quale fu punto sul vivo. Ogni curatore di una testata in perdita di lettori da anni, se sincero, non potrebbe risultare molto sereno ma è notizia di queste ultime settimane l’avvio di un nuovo reboot con spruzzate di retcon di Nathan Never. Chi leggerà, vedrà. Io non ci credo più.

Mentre cerco di seguire con sguardo mentale i cerchi che il lancio di quest’ultimo sassolino sta provocando nel grigio mare di questo brain storming da insonne patentato, chiudo questo effluvio di parole alquanto pessimiste con un personalissimo “non-ne-posso-più”. Da divoratore incallito di fumetti in primis americani mi incontro/scontro da circa 30 anni con due termini, ma sarebbe più appropriato definirli concetti, che sembra proprio non passino mai di moda: continuity e l’appena citata retroactive continuity (per gli amici, retcon). La prima, astrazione ben poco astratta, idea quasi fondante dell’Universo Marvel Comics, vero e proprio meccanismo ad orologeria in cui praticamente nulla accadeva per caso ma tutto era concatenato, in cui nessun character era un’isola ma faceva davvero parte di un organismo narrativo vivo, pulsante (ah, il mio “Lost”…). Insomma, un cosmo narrativo nel quale tutte le testate che ne facevano parte erano legate dal famoso filo rosso di lamuniana memoria. In un articolo, un sostantivo, un aggettivo e un punto esclamativo: uno spettacolo appassionante! Fu questo l’asso nella manica che, ben più di quello dei supereroi con superproblemi, fece vincere a Stan Lee&soci, per lunghi decenni, la ricchissima sfida di poker con la rivale storica DC Comics, la quale, a onor del vero, è la publishing house passata alla storia per aver ideato l’evento fumettisticamente più celebre e imponente di sempre: “Crisis on Infinite Earths”, nota brevemente come “Crisis”, un romanzo d’amore dedicato a sua maestà La Continuity. Per diversi amici collezionisti, questa è semplicemente LA storia di supereroi di tutti i tempi, quella da consigliare senza se e senza ma a chiunque desideri avvicinarsi a questo genere di fumetti. Far amare gli eroi e i criminali dei comics statunitensi non è impresa facilissima al di fuori dei confini USA. Entrano infatti in gioco molti fattori che possono portare ad un amore sperticato verso di essi oppure ad un rigetto pressoché immediato.

La continuity, provo a darne una definizione su due piedi, è quel meccanismo narrativo, in parte nascosto ad un primo livello di lettura, che procura il piacere di vivere, anche se solo virtualmente, in un universo di fiction coeso, dotato di senso, in cui potersi sentire concittadini newyorkesi dei Fantastici Quattro o della Metropolis di Superman. Dà assuefazione, voglia di seguire tutte le storie correlate a determinati personaggi ed eventi in quanto questi non sono che tasselli di un unico, grande mosaico, di una sola, avvincente storia.
Sua sorella(stra) è la retroactive continuity. Riassumo quanto Wikipedia dice in proposito: espediente narrativo nel quale si modificano eventi e situazioni descritti in precedenza per adattarli a nuovi sviluppi narrativi o per correggere preesistenti violazioni della continuity”. Direte: che idea geniale! Che incredibile fucina di infinite possibilità narrative! Tutto vero MA, come in moltissimi casi, quando si abusa di un meccanismo di finzione, il castello di carte della credibilità sospesa del lettore se ne vola via al primo spiffero d’aria. Purtroppo, il procedimento narrativo in oggetto è oramai abusato. Ho sincerante perso il conto di quante retcon siano state ideate e realizzate dagli architetti di Marvel e DC negli ultimi anni. Online, autori di blog e siti non vanno molto per il sottile, definendo quasi sempre tali operazioni come “stupid” e “dumb” (bè, come altro giudicare la Saga del Clone dell’Uomo Ragno?). Quello che credo sia il vero problema di questi congegni di fiction è che quasi sempre, fortunatamente, lasciano il tempo che trovano, per venire presto o tardi rinnegati, proprio loro che – ironia della sorte – nascono per rinnegare alcune assodate situazioni di continuity. Per restare nel nostro orticello fumettaro, il detective musone di casa Bonelli, fresco protagonista, obtorto collo, di casi di continuity e del suo contrario, potrà dire di averne giovato? Ai dati di vendita l’ardua sentenza ma, lasciando da parte ragionamenti puramente economici, la qualità delle avventure non guadagna una tacca da tutti gli stravolgimenti narrativi compiuti, in fieri e in programma, che non sono altro che foglie di fico che tentano di coprire le pudenda di curatori che da anni hanno perso la rotta della creatività.


Commenta:

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.