Collezionando recensioni,
ovvero perchè abbiamo bisogno della merda d’artista


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Per parlare di Collezionando la prendo alla lontana, un po’ perchè il buon Mastro Stout ha già dato ampio risalto ai dettagli della nostra gita lucchese ma un po’ anche per evitare i suoi strali a causa dei miei astronomici ritardi nelle pubblicazioni dei post. Parto perciò da una breve recensione a Ratatouille che avevo fatto tempo fa su la covata malefica. L’oggetto del post in pratica era la presa di posizione di uno dei personaggi, l’implacabile critico culinario Anton Ego, nei confronti delle critiche negative e in particolare delle stroncature, colpevoli di non tenere in considerazione della passione e del cuore che gli artisti mettono in gioco in ogni loro opera. Non voglio adesso rinnegare le parole di apprezzamento usate da me in quell’occasione verso la posizione coraggiosa presa dalla Pixar. La critica, in molti casi, è ancora un’inutile gara a stroncare, viene esercitata in maniera non costruttiva e non riesce quasi mai a cogliere lo zeitgeist se non dopo molto tempo, accodandosi in maniera pecoreccia alla moda del momento. Il famoso detto arbasiniano (ringrazio ancora oggi l’alunno Proserpio per aver condiviso con me tale perla di saggezza), secondo cui in Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “brillante promessa” a quella di “solito stronzo”; soltano a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro” , è l’esatta rappresentazione delle malefatte della critica nel nostro paese.

Nel corso degli anni però la mia posizione si è un po’ modificata, si è assestata, proprio come succede alle case. A Collezionando poi ho assistito ad una conferenza sul ruolo della comunicazione sui social network e dei blog specializzati sul mercato del fumetto italiano, sui modi che questi mezzi hanno di interagire direttamente col pubblico e sulle prospettive che possono avere in futuro. L’idea dominante emersa dal dibattito è la repulsione verso ogni atteggiamento negativo che possa provenire da parte del pubblico dei lettori e pure in fase di critica, al punto tale che è emersa una posizione del tipo “preferiamo passare per marchettari, recensendo solo i fumetti che ci sono effettivamente piaciuti, piuttosto che perdere tempo a rovesciare livore nei confronti degli altri”. E’ una posizione legittima e che ho ritrovato in maniera abbastanza sovrapponibile nel libro di Nick Hornby Una vita da lettore, raccolta degli articoli scritti per la rivista The Believer (che ha tra le proprie regole il divieto alla stroncatura). Per venire incontro all’esigenza imposta da questa regola Hornby cambia il proprio modo di scegliere i libri da leggere e recensire, e tende perciò a scegliere libri che pensa possano avere buone chance di piacergli (aiutandosi con recensioni di amici, assecondando il suo temporaneo interesse per un determinato argomento o dando fiducia ad autori di cui aveva già letto libri che gli erano piaciuti). Effettivamente buttata giù in questa maniera questa è la soluzione ideale sia per Nick Hornby (e per i redattori dei siti dei fumetti), che riescono a evitare di passare troppo tempo leggendo cose brutte, e per gli autori che, nel peggiore dei casi, evitano di venire mortificati nelle loro ambizioni artistiche. E mettiamoci pure un sospiro di sollievo per le case editrici che sono interessate del lato economico della faccenda. Però in questo discorso manca totalmente un quarto invitato al tavolo: il lettore. Mentre leggevo Hornby, ricordando il dibattito lucchese, pensavo al fatto che in un certo senso questa regola di non stroncare mi toglieva la possibilità di leggere Nick Hornby recensore nella sua interezza. Posso sapere cosa piace ad Hornby ma non cosa lo disgusta. E perchè? Io conosco Hornby come scrittore e so che può essere molto caustico, al limite del cinismo in alcune pagine. Perchè mi viene negata la possibilità di accedere a questo lato della sua figura di recensore? Non che non mi faccia piacere leggere recensioni positive naturalmente, ma esse sono solo una parte di quello che Hornby, o un recensore di siti come Comicus, Fumettologica o Spaziobianco può esprimere. Non abbiamo più bisogno di nuovi Vincenzo Mollica.

Poi c’è un altro lato della faccenda che mi fa storcere ugualmente il naso, e che ritengo forse ancora più importante e quindi grave in questo discorso. Butto lì delle ovvietà: il mondo non è fatto solo di cose belle, se lavori nell’ambito artistico devi accettare il fatto che il talento non è distribuito in maniera uniforme, che i mezzi per produrre un’opera sono diversi (anche economicamente) e alcuni accedono a possibilità che altri non hanno. La realtà è così putroppo. L’arte però riesce sempre a rivoluzionare la realtà perché questi aspetti passano in secondo piano rispetto al gusto di ognuno di noi. Si può arrivare ad accettare il fatto che ci siano dei canoni oggettivi di bellezza che guidano i nostri gusti, ma ognuno di noi per fortuna vede il mondo, comprese le opere d’arte, in modo diverso. Certo non è compito del critico raccontare questa diversità né far finta che essa non esiste, il suo lavoro è raccontare il suo modo di vedere le opere. Sarò io lettore a tirare i conti di questa diversità. Se sono intelligente ne uscirò accresciuto culturalmente altrimenti sarò un altro coglione che scrive commenti da cerebroleso su un blog. Ma, per favore, non cercate di convincermi che viviamo in un mondo in cui a tutti deve piacere “Gatto Mondadory” o “Anubi” perché altrimenti se non ti piace sei dalla parte di quelli fermi, di quelli retrogradi, di quelli che non ne capiscono niente di fumetto.

Non è mai successo a quelli che scrivono recensioni di dire a qualche amico che quel fumetto (o libro, o film, o serie) che ha osannato proprio non gli piace, anzi che è proprio una merda? Ok l’amico ci rimane un po’ male, e allora? Smette di esserti amico per questo? Che forse smetto di essere un estimatore di Hornby se scopro che odia Akira? Certo mi dispiacerebbe, ma preferisco un critico che mi propone la sua personale mappa fumettistica (o letteraria), con segnate le zone da evitare come la peste e l’indicazione invece di quelle da vedere assolutamente. E il bello è proprio sovrapporre la tua mappa con quella degli altri. Altrimenti quello che ci aspetta nel migliore dei casi è un conformismo noiosissimo dove tutti guardano le stesse cose “belle”, oppure un’abominevole hipsteria (tutti anticonformisti alla stessa maniera). D’altronde la targhetta di brutto non per forza deve essere equivalente a quella di “non importante”. Quanto trash cinematografico è diventato di culto? Quanti film di merda italiani degli anni ’70 hanno contribuito a fertilizzare un movimento underground di riscoperta che poi ha sfornato un regista come Tarantino? Quanta musica per discotecari della riviera adriatica hanno ascoltato i dj milionari di oggi? Diciamolo una volta per tutte, come in ogni orto, anche nel mondo dell’arte per arrivare alle primizie serve anche tanta merda.

Per concludere ritorno con un esempio in quel di Lucca. A Collezionando una delle esposizioni, intitolata “Quelli del ‘66”, mostrava albi di collane nate cinquant’anni fa. Ebbene due di quelle collane consistevano in un paio di pseudo-pornazzi come Isabella e Genius. Si tratta chiaramente di fumetti men che mediocri e sono sicuro che non troveremo mai nessuno che ci illustrerà ineguagliabili pregi artistici che solo Isabella può vantare, eppure entrambi sono lì. Sotto le teche benedette della capitale italiana del fumetto. Due fumettacci di mezzo secolo fa esposti ad una mostra sul collezionismo e nessuno giustamente ha niente da ridire, nemmeno io, perchè la loro importanza va oltre il fatto che siano brutti. Sono come la merda d’artista di Manzoni: è arte, certo, possiamo metterla in un museo, possiamo batterla all’asta e farci addirittura un convegno attorno. Però, nonostante tutto, resta merda.


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