Air nel Labirinto


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Gli Air li conosciamo tutti: pigri insetti da studio, esteti che coltivano in serra strane varietà di tastiere d’epoca, tra velluti stinti, profumi inebrianti, bassi che smuovono le trippe. Evocano il caro Gainsbourg, con l’aiuto di un medium raffreddato, e vivono in una bolla temporale sintonizzata sugli anni settanta: suadenti musiche da interni, moquette grigia, tavolini da caffè in vetro che riflettono enormi palle stroboscopiche, mobiletti di design svedese con lampade lava e poster alle pareti – comprati per corrispondenza in qualche negozietto californiano – che mostrano vortici psichedelici, palme e unicorni. 

Li vediamo al Labirinto della Masone, delirio architettonico voluto da Franco Maria Ricci nelle belle campagne parmensi: geometrie neoclassiche, splendido dedalo in bambù, con un sentore da ritrovo domenicale per una loggia solenne di enciclopedisti. Piramidone esoterico, vagamente balneare, con mattoncini rossi che ricordano certi centri commerciali. Nel museo-collezione, si accumulano oggetti rari e luminosi: flessuose statuette art decò, la Jaguar nera modello Diabolik di FMR, busti del Bernini, angioletti maliziosi, con contorno di cadaveri afflitti da morbi e putrefazioni secentesche. E soprattutto, i fantastici libri con pagine azzurrine della collana I segni dell’uomo. Testi scritti da Calvino, Manganelli, Arbasino, Roland Barthes. L’apocalisse colorata del Beato di Liebana accompagnata dalla barba di Umberto Eco, vicino al mitico Codex Seraphinianus di Luigi Serafini, atlante di un universo immaginario abitato da occhi che diventano pesci, amanti-coccodrill e piante zoomorfe trapiantate da paradisi cosmici. 

Cornice ideale, quindi, per i due di Versailles, provvisti di titoli di studio nobilissimi (uno matematico, l’altro architetto), che già immaginavamo intenti a ruminazioni intellettuali, cercando algoritmi per svelare il disegno del labirinto, e perdersi, naturalmente, tra i meandri vegetali, arrivando in ritardo. Invece eccoli puntualissimi, alle 22.30, davanti a parecchie persone, si dice 2000, forse qualcuna di più, nel piazzale, con la piramide dietro il palco, azzurrina e misteriosa. Salgono sulla scena vestiti di bianco, dopo una probabile scorribanda presso qualche sartoria rimasta agli anni di John Travolta. Jean-Benôit Dunckel è rintanato come un paguro dietro a un quadrilatero di moog e tastiere vintage, e pare muto; Nicolas Godin, al centro del palco, con sciarpetta disinvolta, ha il compito di suonare basso, chitarra, banjo e di dare qualche tocco di vocoder. E di intrattenere il pubblico con brevissime battute, spesso modificate da un filtro robotico. I due sono vecchiotti, uno scavato e l’altro ingrassato, e non possono che ricordare Bouvard e Pecuchet, impolverati archivisti che riescono nel miracolo, a furia di ripiegamenti e introversioni, di essere stranamente naturali e sexy.

Gli Air dal vivo si rivelano seguaci di un culto stellare e invocano le loro divinità benevole e chic a furia di droni e ronzii. Ed ecco allora il motivo del bianco: è per essere investiti appieno dai colori. Il concerto vira in rosso, verde, azzurrino, violetto, blu, grigio e nero, in mezzo a strisce, bolle, a lampi. Lucine disco, disegni al neon da varietà anni ottanta, ondeggiamenti in sincrono con voci distorte, lampadine da video bar di provincia, linee luminose da fantascienza di serie B. E loro davanti a suonare cose molto belle: Venus, Cherry Blossom Girl, Playground Love, People in the City, una forsennata Kelly Watch the Stars. E in qualche occasione attivano la loro macchina del tempo con esiti imprevedibili: Remember ci porta a ballare un lento del Tempo delle MeleLe Femme D’argent ci fa entrare in contatto medianico con Jane Birkin, Talisman, ci catapulta davanti a un televisore, attorno al 1979, a guardare la sigla di un telefilm di fantascienza, inghiottiti in un loop inestricabile. I fischiettamenti di Alpha, Beta, Gaga fanno pensare a strane interferenze autostradali, ed eccoci su una Highway di Los Angeles, con uscita all’aeroporto di Orly, a chiedere informazioni a un vigile urbano. Infine, arriva il vertice di How Does it Make You Feel: e siamo in viaggio con alcuni cowboy in trasferta comitiva dal Signor Hulot. Poco distante, i baffoni da tricheco di David Crosby: si sta facendo massaggiare le sinapsi da un pacchetto di Gitanes imbevute di acido, incontra Gainsbourg in una stradina suburbana e lo convince ad avviare una start-up informatica assemblando computer in garage. Sexy Boy, chiedete? Ovviamente sì, più sgangherata e lo-fi che su disco, quasi arrivasse da una trasmissione di vent’anni fa, ma irresistibile.


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